di Monica Luongo, apparso su www.olimpiabineschi.it
Il combinato disposto degli eventi politici degli ultimi mesi in Italia e non solo evidenzia un magma di attività, reattività, riflessioni e conflitti che incrociano politica e femminismi. Cosa non nuova, già avvenuta numerose altre volte. Ma ciò che mi apre nell’oggi è un quadro nuovo – frammentario certo – ma allo stesso tempo un punto di svolta dal quale mi auguro positivamente non si potrà tornare indietro.
Parto dal nuovo numero della rivista Leggendaria (n. 121 che trovate in libreria e anche online, www.leggendaria.it), che titola “Di che cosa parliamo quando parliamo di politica”. Un numero, come tutte le riviste, che è stato preparato dopo l’esito referendario dello scorso dicembre in Italia e che prende spunto non solo dalle dimissioni di Matteo Renzi ma si allarga alla guida di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America, alla qualità del dibattito nei giorni delle campagne elettorali e le reazioni delle femministe americane e di tutto il mondo dopo l’insediamento del presidente USA il 20 gennaio scorso. E che in quesi giorni calza a pennello.
Come d’uso, Leggendaria non chiede alle sue collaboratrici/collaboratori di appoggiare o confutare una tesi, piuttosto da’ spazio a voci differenti perché chi legge abbia una idea il più possibile ampia del tema proposto. Le donne che hanno scritto in questo numero vengono dalla politica, dal giornalismo e comunque dall’impegno femminista in vari modi coniugato.
L’ho letto e riletto nella settimana durante la quale le assemblee all’interno del PD mostravano un panorama di volti esclusivamente maschili (forse di minore importanza mondiale ma non da meno alle immagini di Trump che firma i primi decreti circondato dal suo staff di soli uomini). Sì resto ancora e sempre sbigottita, e non so se sto assistendo a una replica di Fratelli di Abel Ferrara o a un summit nella Corea del Nord. No, sono in Italia e da qui sono tornata a guardare il mondo. Dove sono finite le donne che per anni ho visto nel PCI-PDS-PD? Se lo sono chieste in molte, come Letizia Paolozzi su DeA (ci sono, ci sono, scrive, solo che agiscono diversamente anche se non basta più prendersi cura di http://www.donnealtri.it/2017/02/qualche-voce-femminile-ce-nel-pd-ma-non-basta-il-prendersi-cura/) e Claudia Mancina su Il Mattino che non fa sconti a nessuna: “Le donne sono diventate le vestali degli aspetti deteriori del post-comunismo: la retorica dei buoni sentimenti, l’incapacità di fare i conti col passato, l’ambiguità delle prospettive politiche, mentre trovavano la loro identità solo nel tema delle quote”. E provano a dirlo con uno spettro più ampio anche su Leggendaria, alcune partendo da sé come il femminismo ha insegnato a molte di noi (Luciana Di Mauro e Bia Sarasini), come Alisa Del Re, che si interroga sulla presenza odierna delle donne nelle istituzioni. O come Cecilia D’Elia, che si augura di vedere “meno appelli di donne e più parole che facciano la differenza”.
Ho pensato e ripensato a tutte quelle parole sapide mentre nei giorni scorsi ho seguito due incontri alla Casa Internazionale delle Donne di Roma (uno dedicato allo sciopero delle donne del prossimo otto marzo, organizzato da Bianca Pomeranzi e Giorgia Serughetti e uno in occasione della proiezione del documentario Femminismo! di Paola Columba, che rifà la storia del femminismo dagli anni Settanta a oggi).
Letture, visioni e parole che mi hanno restituito un senso di smarrimento per la spaccatura che vedo come non mi era capitato prima, tra femminismi e politica, tra linguaggi e uso dei media, tra donne di generazioni differenti, tra politiche e militanti. Perché se non vi è alcun dubbio che tra i maggiori pregi dei movimenti ci siano l’ascolto e l’accoglienza delle differenze, è altrettanto innegabile che anni di politiche separatiste (dalla politica in senso lato, dal pensiero maschile in passato e all’interno degli stessi movimenti femministi) ci hanno rese incapaci di agire come soggetto politico in numerosi casi e nel corso delle più recenti legislature. Non mi ha mai convinta la motivazione che risento in questi giorni: le donne del PD non si fanno vedere perché è meglio non rimestare nella macelleria politica che si svolge all’interno del partito, sono invece convinta, come scrive Franca Fossati – giornalista, donna in politica – che quando si è trattato di stare accanto a chi governare (lei in qualità di portavoce di Livia Turco, allora ministra della Solidarietà sociale), e dopo il cambiamento radicale dello scenario mondiale seguito all’11 settembre, “Eccola, è sotto i nostri occhi la crisi del modello patriarcale (…) ma quindi che fare? Nella ricerca di risposte ti scopri in sintonia con alcune donne, alcuni uomini, Non con tante altre femministe che pure erano state tue compagne di viaggio”. Se la campagna referendaria per il Si non ha portato il risultato atteso è stato anche grazie alla confusione, scrive Giorgia Serughetti, di chi tra le donne ha usato il referendum per parlare d’altro.
E ancora: parlare, ma come? I comitati di donne che lavorano con un impegno immenso allo sciopero nazionale dell’otto marzo prossimo hanno avuto modo nell’assemblea di Bologna di lavorare ai tavoli tematici di confrontarsi su argomenti differenti tra generazioni altrettanto differenti. Lo iato che sento è ancora profondo: non cerco un linguaggio comune, voglio accogliere quello di chi è più giovane di me, senza dover insegnare, non mi importa che dicano diseguaglianze invece di differenze, intersezioni invece di reti, o di questo dobbiamo continuare a fare una bandiera isolazionista mentre il tempo scorre a nostro svantaggio? Lo sciopero dell’otto marzo che ha come fa il dovere di rivendicare e non dimenticare l’emergenza della violenza contro le donne non deve cadere però negli eccessi di raffigurazioni retoriche vittimizzanti, non deve obbligatoriamente dimenticare quando si tratterà di scrivere e parlare in pubblico che le donne migranti al migranti al momento non si vedono nelle riunioni romane, che quell’otto marzo saranno in molte a non poter scioperare perché non possono lasciare il lavoro, perché il lavoro di cura non da’ respiro, perché in fabbrica o al call center se ne fregano della tua adesione. E non dimentichiamo che lo sforzo per questa manifestazione dovrà contenere la capacità di far discutere, di stare su tutti i media, per non vanificarne nemmeno un minuto.
Le frecce avranno pure le punte di velluto ma pur sempre frecce sono. Anna Maria Crispino ha ricordato quanto sia stato spesso scendente il dibattito tra donne durante la campagna referendaria sui social media, che ha definito un “ambiente tossico”. Io non lo condivido (anche i social hanno una loro netiquette, basta rispettarla), concordo invece sull’uso di un linguaggio al quale tanto, ripeto teniamo, che pure è diventato in numerosi casi scadente, violento, privo di contenuti, e ahimè spesso per poche elette. E soprattutto non ha raggiunto risultati né da una sponda né dall’altra.
Faccio fatica a trovare modalità di relazione nuove oggi come oggi, spero che le più giovani e più in forze riescano meglio di me e di molte altre. Ma penso più che mai che sia ora di governare senza ritrosie o distinguo come si diceva una volta, perché il Grande Inverno è già arrivato.