Pubblicato sul manifesto il 3 gennaio 2017 –
“Sarà stata l’intelligente e apprezzata brevità, sarà che siamo reduci da una sbornia renziana di slide e tweet, sarà che non ne possiamo più di promesse bugiarde e battute a doppio senso, di ricatti e di minacce, ma vedere un uomo normale dire con calma poche e semplici cose di buon senso è stato come respirare un po’ di aria fresca”. Sono parole del direttore del Giornale Alessandro Sallusti, che esprimono apprezzamento per il discorso di fine anno del presidente Mattarella. Sì, proprio l’uomo la cui elezione alla più alta carica dello stato è stata causa dell’ira violenta di Berlusconi e della rottura con il Pd di Renzi.
Dietrologi della politica più raffinati di me spiegheranno che tutto dipende da una certa consonanza tra le affermazioni di Mattarella sull’esigenza di una coerente legge elettorale prima di sciogliere le camere e la poca voglia di andare a votare del medesimo Berlusconi. Io preferisco restare per un po’ alla lettera di una opinione che saluta il buon senso e le buone maniere linguistiche di un signore politicamente importante che non sarà un avvincente oratore, ma almeno non dice parolacce.
Sallusti manifesta un tipo di sorpresa che è già stata trasversalmente dichiarata anche a proposito del modo di parlare e di interloquire del neo presidente del Consiglio Gentiloni. Nomen omen (il nome è un destino) si potrebbe dire, senza rimuovere anche il fatto da più parti ricordato che siamo di fronte all’erede di una antica e nobile famiglia. Eh sì, sarà anche una fotocopia, un clone telecomandato di Renzi, ma il nuovo premier è una persona, appunto, gentile, bene educata. Ho ascoltato – grazie ai servizi della mai abbastanza lodata Radio Radicale – numerose dichiarazioni parlamentari in occasione dei voti di fiducia al governo che avevano al proprio centro, al di là delle diverse posizioni politiche, proprio questo. Finalmente ecco una persona civile, che non tratta gli avversari come miserabili gufi! E questo è sembrato a molti il presupposto minimo, ma indispensabile, per tentare un qualche recupero di civiltà politica.
Sento già le obiezioni di certi carissimi amici (di sinistra) per i quali la stessa espressione “buone maniere” significa inesorabilmente l’insopportabile affettazione di chi parla forbito ma colpisce comunque con la spietatezza necessaria.
C’è del vero. Tuttavia farò il pedante ricordando quella fondamentale e affascinante opera di Norbert Elias, intitolata La civiltà delle buone maniere, in cui si ipotizzano – tra molto altro – rapporti di causa e effetto tra cose come non soffiarsi il naso con la stessa mano con la quale si prendeva il cibo dalla tavola comune (in tempi, non troppo remoti, in cui non erano stati ancora inventati i fazzoletti) e il progredire di una certa emancipazione dalla barbarie delle genti occidentali.
Mi si potrà subito rispondere: ma il fatto che in Europa nella prima metà del ‘900 si utilizzassero correttamente forchetta e coltello a tavola, e si ascoltasse e talvolta persino si eseguisse in salotto ottima musica romantica, ci ha forse salvato dalla barbarie del nazismo e del fascismo?
E’ un colpo basso, lo ammetto. Ma potrei difendermi impugnando la necessità di estendere il ricorso alle buone maniere non solo nei comportamenti in società, così come nelle relazioni personali, ma ai modi con cui maneggiamo mentalmente quegli oggetti delicati che sono le idee, i concetti, le visioni che ci facciamo del mondo. Oso immaginare che esprimersi in un linguaggio al riparo da metafore sguaiate e turpiloqui possa essere un primo passo verso una mentalità resistente alla barbarie.