Non mi piacciono le frasi volgari di Donald Trump rivolte alle donne, ma nemmeno quelle di Robert De Niro, che gli da del “maiale” e dice che gli riempirebbe volentieri la faccia di pugni. Si potrebbe pensare che certe espressioni rudi, da macho, fanno parte di un certo costume made in USA, di cui Hollywood ha dato spesso rappresentazioni memorabili. E che la sincerità triviale di chi sta sulla scena pubblica, persino se si candida alla Presidenza degli Stati Uniti, sia in fondo preferibile a certe affettazioni del “politicamente corretto”.
Ma l’importanza che sta conoscendo il problema del linguaggio sul terreno del sesso nella campagna elettorale americana forse ci parla di qualcosa di più profondo.
Tra i commenti apparsi in Italia sul video incriminato di Trump mi ha colpito quello pubblicato sul Sole 24 Ore di domenica, firmato da una donna, Giulia Carcasi, secondo la quale il candidato repubblicano, definito un “poveraccio”, non dovrebbe chiedere scusa alle donne – come in America gli chiedono anche molti colleghi di partito, e come più o meno maldestramente ha provato a fare – ma a tutti gli uomini. Siamo noi, esponenti del “sesso forte” , a essere realmente danneggiati dall’immagine riflessa di Trump.
Un ragionamento che sembra presupporre una evoluzione positiva della soggettività maschile, ormai refrattaria a quel linguaggio e a quel modo di guardare all’altro sesso (e direi anche al proprio).
Ma le cose stanno realmente così?
Questa mi pare la domanda centrale sottesa alle discussioni che animano il confronto elettorale in America, le quali giungono in un paese che si è accapigliato per due decenni sul rapporto tra potere, sesso e denaro, grazie alla figura premonitrice di Silvio Berlusconi.
Come vivono i maschi italiani, oggi, queste dispute sulla relazione tra uomini e donne? È realmente avvenuto un cambiamento positivo, tanto da determinare una maggioranza che si sente direttamente offesa dalle parole di The Donald?
Qualche segno lo si avverte nell’atteggiamento sempre più diffuso di uomini che sentono l’esigenza di impegnarsi pubblicamente per riconoscere e prevenire la violenza maschile contro le donne. Non intendo certamente stabilire un nesso diretto tra frasi sessiste “al bar” o “negli spogliatoi”, per citare ancora Trump, e azioni violente fino al femminicidio. Ma è certamente possibile che l’aggressività maschile abbia anche una radice in questa cultura del possesso ancora troppo presente.
Ho già parlato in questo spazio dell’iniziativa che è stata presa nei mesi scorsi da un gruppo di uomini e di associazioni impegnate nella ricerca di un diverso modo di vivere la maschilità, sotto il titolo Primadellaviolenza. È una scommessa sulla consistenza di questa presa di coscienza. Va in direzione di una verifica positiva il fatto che si stanno moltiplicando le iniziative diffuse in molte città italiane. Si era pensato a una giornata unica, in cui concentrare – un mese prima della ricorrenza del 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne – una presa di parola pubblica da parte degli uomini. Invece emerge spontaneamente la preferenza per incontri su base locale, che possono permettere anche uno scambio più intenso.
Da sabato 15 ottobre, con iniziative previste a Livorno e a Palermo (quest’ultimo in particolare contro la tratta e la prostituzione) si contano altri appuntamenti a Roma il 21 ottobre ( per una intera giornata con un incontro pubblico alla Casa Internazionale delle Donne dalle 15), il 22 a Genova e a Conversano (Puglia), il 23 a Milano, il 25 a Bergamo, il 2 novembre a Pisa e a Monza.