Rientro dal “chiuso per ferie”, rientro al lavoro, croce e delizia: perché lavoriamo troppo o in maniera troppo discontinua; perché non ricaviamo sufficiente reddito dai nostri impieghi oppure guadagniamo bene ma in cambio di un assorbimento totale; perché stiamo strette tra vita privata e vita pubblica o costrette a sacrificare l’una per l’altra.
Benvenuto, dunque, un piccolo e prezioso libro dal titolo vagamente ermetico: Lavoro e maternità, il doppio si, tra esperienze e innovazione da poco edito dalla Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it), fondata nel lontano 1976 e tutt’oggi luogo di libero scambio di pensiero femminile di ottima qualità. Fatto raro e, anche questo, prezioso.
Cominciamo col decrittare il titolo del volumetto. Esso allude alle “donne del doppio sì” (sì al lavoro, sì alla maternità), espressione coniata da Lia Cigarini, una delle fondatrici della Libreria, per dire lo spostamento avvenuto nell’universo femminile grazie al femminismo ma in discontinuità rispetto ad esso. Noi della prima ora, infatti, eravamo in rivolta contro il patriarcato soprattutto per via della “rappresentazione che dava della madre e il posto in cui la collocava: risorsa per i figli maschi e per tutta la società maschile. Una figura, immobile, sempre lì a dare e mai a prendere per sé” (Cigarini). Scappavamo quindi da tutto ciò ci sembrava ricalcasse le sue orme, maternità compresa. Non a caso abbiamo fatto precipitare la curva demografica. In compenso abbiamo riempito le università e i posti di lavoro e sconfitto il patriarcato grazie alla presa di coscienza e di parola. Cosicché le nostre simili venute dopo (quelle che oggi hanno tra i 30 e i 40 anni) hanno dimesso le vecchie ritrosie e possono pronunciare il “doppio si”. Con conseguenze che questo libro racconta in modo originale.
Le autrici sono ben otto (e tra loro ci sono sociologhe, avvocate, sindacaliste) ma le protagoniste sono ancora di più: 31 donne che abitano a Milano e dintorni, tra i 36 e i 57 anni, la maggior parte sotto i 45. Tranne poche, hanno un marito e uno o due figli. Spinte dal bisogno di confrontarsi con altre si sono incontrate per un anno in Libreria con le più anziane e più, teoricamente, competenti.
Come per una buona minestra fatta in casa, tutte insieme hanno mischiato vari ingredienti e hanno scodellato in tavola uno spaccato di realtà ben più vivo di quello disegnato dalle statistiche. L’ingrediente base è il part-time, a metà tempo (raramente) al 75% del normale orario di lavoro nella maggioranza dei casi. E’ scelto dall’operaia e dall’impiegata, dalla sindacalista e dalla “donna quadro”, dall’ingegnera capo-progetto e dalla libera professionista. La loro è una mossa strategica per poter vivere con più agio il “doppio si”, un agio che si estende anche al rapporto con il compagno di vita e padre dei figli, alla maniera di molte donne di oggi. Le quali al vecchio “scazzo perpetuo” con i mariti preferiscono l’alleanza coniugale e la complementarità economica, paghe come sono dell’esperienza riconquistata.
l’Italia è l’ultima in classifica in Europa per quantità di lavoro a tempo ridotto. Inoltre, secondo la nostra legge, il lavoratore può accedere al tempo parziale in base a un contratto individuale; il contratto collettivo non c’entra né c’entrano i sindacati che semmai supportano la richiesta. Ma per il sindacato, dice Silvia B. (addetta al cliente in una società informatica): “il part-time è considerato un lusso”. Lei, come altre, è convinta che questa visione miope non dipenda dal fatto che coloro che rappresentano i lavoratori siano per la maggioranza uomini. Piuttosto: le battaglie per il tempo di lavoro “non portano gloria”, e pertanto vengono trascurate.
Più che un lusso, i datori di lavoro considerano la riduzione dell’orario delle dipendenti un ingombro, specie se viene chiesto successivamente al congedo di maternità.
La maternità è diventata oscena?
Si chiede quindi una delle autrici, Giordana Masotto, e nota come la parentesi materna venga spesso screditata rispolverando il vecchio armamentario patriarcale del destino biologico, dell’esperienza istintuale, della pacificazione senza coscienza. Invece: le nostre part-timer parlano dell’essere madri come di fatto voluto e pensato, il che non esclude conflitti visto che il desiderio di prendersi cura dei piccoli e di seguirne la crescita fa problema all’organizzazione del lavoro.
“Quando sono rimasta incinta”, racconta Silvia S., “mi sembrava una cosa bellissima sia per me sia perché ero il capo del personale. Nella mia follia mi sembrava che fosse un dono per l’azienda. Invece il mio capo vedeva nel mio pancione un manifesto pubblicitario per le altre. Quindi io ero felice, lui dava di matto”.
Per fortuna ci sono capi (maschi o femmine, dai racconti sembra non esserci differenza) che agevolano il part-time delle dipendenti perché hanno un’alta considerazione delle competenze femminili, quali che siano le mansioni cui vengono applicate e si industriano per non farne a meno.
Le autrici distinguono tra tre tipi di part-time: quello che emargina perché significa retrocessione nella qualità del lavoro, quello di tipo conciliativo-tradizionale che non cambia la situazione lavorativa ma neanche la migliora. Infine c’è il part-time innovativo risultato di un mix di fattori: “contesto favorevole, livello di qualificazione piuttosto alto, forti motivazioni soggettive”. Siamo all’ovvio, si direbbe. E però sono proprio le “pioniere” privilegiate a mostrare che il tempo ridotto è conciliabile con il bene dell’azienda. Non solo: talvolta mette in moto criteri di flessibilità oraria estesi a tutte e tutti. Che siano inserite nella categoria A, B o C, le nostre part-timer sorprendono: nessuna si pente, nessuna si lamenta. E sì che alcune perdono soldi necessari, altre fronteggiano situazioni sgradevoli.
Chiara, impiegata in un’azienda televisiva, parla dello sconforto di non ricevere più incarichi di responsabilità: “non sono considerata un essere pensante”, dice. Eppure giudica un crescita personale dare meno tempo all’azienda e avere più tempo per sé. “Se vivessi come le altre colleghe avendo fatto del mio unico centro il lavoro, questo mi toglierebbe l’autostima… Quando hai dei figli hai un’autostima di tipo diverso”, aggiunge Teresa, la quale pur essendo una direttrice di produzione in un’azienda televisiva deve affrontare non pochi problemi con i colleghi, convinti che lei non ci sia mai perché lavora quattro giorni la settimana.
L’ostilità delle colleghe e dei colleghi è un’esperienza diffusa e patita perché il posto di lavoro è anche luogo di chiacchiere, di affetti, di collaborazione, ma è anche luogo dove si annidano coazioni a ripetere che irrigidiscono i comportamenti tanto dei capi quanto dei dipendenti. Come scrivono Ornella Savoldi e Vanna Chiarabini: “Alla base dell’atteggiamento ostile verso il part-time non c’è solo puntiglio ideologico, ma anche un surplus di lavoro gestionale e organizzativo. Ma con la presenza di tante donne nelle aziende questo surplus di impegno va messo in conto”.
Insomma: il “doppio sì” preme, e premerà sempre di più, sull’organizzazione del lavoro. Le testimonianze di questo libro lo mostrano. Le autrici valorizzano le loro parole. Valorizzando al contempo un metodo di scambio politico che può rappresentare una chiave per accelerare il cambiamento.