Pubblicato sul manifesto il 28 giugno 2016 –
Dopo il referendum inglese, incautamente avvallato dal premier conservatore, mi viene voglia di rielencare tutti i dubbi che nutro per queste forme di democrazia diretta, con la loro retorica sui “popoli che scelgono il proprio destino”.
Certamente gli entusiasmi per la “volontà generale” di rousseuaiana memoria, più o meno veicolata dalle moderne “piattaforme” digitali, si affermano quando la democrazia rappresentativa fornisce le pessime prove che abbiamo sotto gli occhi. Tuttavia bisognerebbe sapere che certi rimedi sono peggiori del male.
Ieri lo diceva uno uomo non certo sospettabile di riserve sul ricorso ai referendum come Stefano Rodotà. Intervistato dalla Stampa criticava Cameron, che ha strumentalizzato a “fini politici” una sorta di arma impropria, divenuta un boomerang per lui, per il Regno Unito (quanto ora veramente unito?) e l’intera Europa.
Anche in Italia si rischia in autunno un referendum sulla Costituzione preda delle propagande opposte di Renzi e dei 5 Stelle, e non solo loro. Rodotà osserva come ormai “l’ambiente informativo” sia “molto più sensibile alle suggestioni e alla propaganda” in quella sorta di Democrazia recitativa – dal titolo di un saggio di Emilio Gentile – in cui siamo immersi. Critica poi Renzi per la torsione plebiscitaria che ha impresso alla consultazione referendaria, un possibile boomerang anche per lui.
Il capo del governo, e del Pd, non sembra volersene fare una ragione: domenica sul Sole 24 Ore ha affermato che il referendum assume un valore ancora più importante di “spartiacque”: da una parte i sostenitori di “un sistema solido che garantisce la governabilità”, dall’altra i partigiani dell’”incertezza permanente”.
Ci si poteva aspettare, dopo le batoste nelle città e dopo il Brexit, che prevalesse un maggiore ascolto delle numerose critiche fondate e di merito che vengono alla riforma costituzionale e alla legge elettorale. Magari l’indicazione di un percorso volto a recuperare consensi e, soprattutto, a produrre alla fine un assetto istituzionale veramente migliore di quello attuale.
Ma non è da Renzi. E non rientra del resto nella logica binaria di qualunque referendum. Un meccanismo che si mette in funzione quando la virtù politica della mediazione ha già fallito.
Mi ricordo il clima nel vecchio Pci di fronte alla “svolta” sul cambiamento del nome annunciata da Occhetto. La rincorsa polemica tra lui e Ingrao portò all’immediato mega referendum interno sul Sì e il No, all’insegna della propaganda e della semplificazione (conservatori contro innovatori, ovviamente). Gli effetti non proprio positivi di quel “metodo” condizionano ancora oggi la sinistra e la politica italiana.
Per questo ogni tanto mi abbandono alla fantasia sulla possibilità di un qualche gesto diverso da parte di una sinistra che non vedo ancora in circolazione. Una cosa del tipo: votiamo No contro queste riforme, ma saremmo anche disposti a cambiare idea se il fronte opposto accettasse queste precise modifiche su questo e quell’altro punto del cambiamento costituzionale, della legge elettorale, e anche del modo in cui si gestisce l’informazione pubblica… Una sinistra che quanto più fosse radicalmente critica di questo sistema economico e sociale, e autonoma rispetto ai partiti esistenti (5 stelle compresi), tanto più dovrebbe essere capace di proporre la più larga unità democratica, di fronte al rischio sempre più concreto che prevalgano in tutta Europa le peggiori spinte di destra.
Insomma, tra i tifosi del No e quelli del Sì, propongo di riflettere un momento sul possibile valore ri-costituente del Nì.