Gli inglesi lasciano l’Europa ma io penso ai greci che stanno facendo sacrifici immensi e ingiusti per rimanervi. Per il resto mi sento come se fosse scoppiata una guerra. Uso il “come se” per tenere aperta la speranza. Il neo liberismo ha distrutto le nostre società, impoverito tutti e tolto strumenti di trasformazione positiva proprio a chi ha meno. Iniziò guarda caso in Gran Bretagna con Margaret Thatcher che disse “la società non esiste”, ma poi è diventata neoliberista anche la sinistra e con essa tutta l’Europa.
Cos’è ora che ci salva?
Da tempo ho deciso di lasciare al suo destino la sinistra liberista, in Italia il PD: non è più, come si dice, la soluzione ma parte del problema. Una lunga storia è finita in miseria, le grandi tradizioni politiche che l’hanno prodotta sono venute meno e quel che rimane nei partiti è poco più che uno strumento di potere per gli opportunisti dell’ultima ora. Non voglio più sostenere questo desiderio di potere e voglio invece sostenere altre vite e altri desideri.
La mia esistenza materiale, le mie condizioni di vita, le mie relazioni, i luoghi in cui vivo e lavoro sono tutti profondamente segnati dall’esito di questa storia e in particolare dal sostegno dato dalla sinistra alle politiche neoliberiste. Questa sinistra ha fatto proprie le tesi sostenute dalla destra americana negli anni ’70. Si disse allora che la crescita della partecipazione dal basso era un eccesso di democrazia che metteva in crisi la governabilità e che era necessario semplificare la democrazia dall’alto e rendere autonoma la politica dalla società (Samuel P.Huntington, nel 1975, proprio dopo il golpe cileno).
Tutto questo ha alimentato il dissolversi dei legami sociali, quelli che producono vera politica, cioè cambiamento, e quell’immenso concentrarsi della ricchezza in poche mani che caratterizza oggi le nostre vite. Nel suo piccolo, molto piccolo, se ne vede il riflesso nelle proposte di riforma costituzionale ed elettorale del governo, semplicemente un modo per consentire al ceto politico vecchio e nuovo di rimuovere le ragioni della propria crisi, diventare una oligarchia che si nomina da sola e vivere di riflesso rappresentando gli interessi delle élite economiche. Ma come vediamo oggi con la Brexit, queste sono scelte scellerate: i nuovi espropriati o coloro che semplicemente si ritengono tali perdono lo sguardo del futuro e agiscono di conseguenza.
In questo scenario le elezioni comunali italiane sembrano piccola cosa, ma non lo sono. In quella campagna elettorale c’era già tutto. Virginia Raggi ha detto di volersi battersi per preservare il bene pubblico “contro chi, come la destra e il Pd, ha annunciato di voler privatizzare pezzi della città”, difendere le fasce più deboli, avviare politiche per l’ambiente, garantire il diritto all’abitare, affrontare la questione dell’immigrazione. Roberto Giachetti ha creduto di avvantaggiarsi parlando di Olimpiadi, di 170 mila posti di lavoro, di grandi opere.
Le parole di Raggi sono importanti soprattutto perché vengono da un movimento che è totalmente immerso nelle contraddizioni del nostro tempo. Nella sua breve storia il M5S ha alimentato la contrapposizione tra “noi” e “loro”, nell’illusione che non ci sia un nesso tra la degenerazione della politica e la crisi culturale di un’intera società di cui tutti facciamo parte. Ha fatto spesso uso di un linguaggio violento, soffiando sul risentimento. Ha esibito l’onestà come strumento di purificazione che consente di presentare le proprie idee come indiscutibili. Ha riproposto la vecchia idea del sapere come tecnica e della politica ridotta a competenza (“la scomposizione neoliberista del lavoro fordista nelle ‘competenze’ postfordiste” scrisse tempo fa Ida Dominijanni). Ha confuso la cultura della partecipazione e gli strumenti della democrazia diretta con il bastare a se stessi, ha parlato di bene comune e agito dinamiche da setta e, infine, ha riproposto una idea elettoralistica e tutto sommato povera della politica, mirata a “vincere” nelle istituzioni, senza vedere quanta politica c’è già nella vita quotidiana del paese. I 5 stelle sono anch’essi espressione della crisi della democrazia rappresentativa quando essa perde la capacità di rappresentazione delle cose, che significa anche che i singoli, slegati dalle relazioni, pensano di salvarsi da soli o contro qualcuno, soprattutto chi ha meno, chi è colpito dalla crisi, chi proprio nelle relazioni dovrebbe trovare la propria forza.
A darmi le risorse simboliche per vivere e a salvare il senso della politica come ciò che fa accadere il cambiamento nelle relazioni e spinge tutto il resto non è perciò né la battaglia culturale dentro la sinistra né l’antipolitica. E’ la relazione politica con le donne e con la libertà messa in campo dal femminismo, cioè quel di più che il femminismo ha fatto accadere quando ha tolto il proprio credito al patriarcato. Le donne hanno smascherato il livello profondo della violenza patriarcale per come essa ha organizzato e pensato la realtà e questo ha cambiato tutto. Dopo il femminismo la politica non può più essere la stessa cosa e la deriva della sinistra è frutto anche del suo testardo rifiuto di vedere quanto profondo fosse il proprio legame con la cultura patriarcale e con le sue pratiche di potere.
A Roma, all’ultimo momento, ho deciso di andare a votare. Perché andare a votare se la politica è prima di tutto altrove? La risposta, lo vediamo in queste ore, è nelle cose. Quell’altrove deve riprendersi lo spazio che la politica dei partiti ha sequestrato per sé, per cambiarlo. Ma a convincermi è stato un fatto preciso. Improvvisamente nella vicenda romana c’è stato un salto di scala, gli sms anonimi fatti circolare poche ore prima del voto: “La bugia che condanna. Domenica si vota. Raggi ha mentito e risponderà in tribunale. Roma non merita un sindaco #Bugiarda”, attacchi personali ripresi dai vertici del PD. Sms rivolti a tutti e che ci hanno coinvolto tutti in una violenza.
Per la mia storia politica di sinistra queste cose hanno un significato profondo, da non sottovalutare e mi sento chiamato a tenerne conto seriamente: sono la manipolazione e la violenza usate come metodo politico per far fuori l’altro. Non si tratta di una violenza qualsiasi, non per me. Non sono colpi di coda di una campagna elettorale fatta di scorrettezze reciproche. La violenza non può essere mai considerata una cosa fisiologica, tanto più quando è esercitata per ottenere potere sugli altri e se chi la esercita è al governo del paese. Questa è la violenza di un mondo che crolla e non sa più darsi limiti. La violenza è un salto di scala.
Bisogna salvarsi da questo crollo, bisogna garantire l’esistenza di spazi in cui possa accadere altro. La violenza ci trascina tutti nella miseria. Ho votato smettendo di pensare a chi “mi rappresenta”: questa idea della politica per me è finita, l’ho imparato dal femminismo, la politica è il conflitto su quello che si desidera e non la difesa di quello che si è o l’espressione di una appartenenza. Ho votato perché la violenza cancella la possibilità di una politica fatta di differenze e conflitti, e perché nella semplice forza con cui Virginia Raggi ha reagito alla violenza ho visto la possibilità che porti qualcosa di differente dai maschi patriarcali di entrambi i partiti. Ho dunque votato per lei.
Ora che la Brexit ha reso visibile il baratro su cui ci ha portato il neoliberismo, con la sua guerra alla vita e alle relazioni, alimentando l’odio tra chi non ha e l’illusione di essere più forti da soli, gli uni contro gli altri, gli inclusi contro gli esclusi, i poveri contro i migranti, la condizione della nostra salvezza è per me rendere visibile la forza della politica delle relazioni, dismettendo il più possibile di ciò che resta del patriarcato, nazionalismo e primato del denaro compresi.