Pubblicato su Alternative per il socialismo n.40
“Mentre seguivo il dibattito sull’utero in affitto, mi sono chiesta come mai non fossi turbata dall’idea che una donna faccia figli per altri e piuttosto fiduciosa che quei bambini crescano bene con i genitori che li hanno voluti e commissionati Mi sono detta che dev’essere così perché la mia venuta al mondo s’è accompagnata a traumi che rimandavano a uno ancora più terribile, nonché alla mancanza di quasi tutte le condizioni che la psicologia odierna ritiene importanti per un buon attaccamento del bambino alla madre. Tutte tranne una: mi sono sentita desiderata e amata dai miei genitori e ho goduto della cura di una donna il cui affetto mi ha nutrito e protetto”.
Sono spiazzanti le parole di Helena Janeczek, scrittrice origine tedesca, figlia di genitori ebrei polacchi naturalizzati in Germania, che vive in Italia e scrive in italiano. (tra i suoi libri “Lezioni di tenebra” e “Le rondini di Montecassino”). La sua testimonianza personale, all’inizio di un denso intervento (Le madri surrogate. Soggetti e non oggetti del desiderio altrui, Pagina 99, 14 marzo 2016, http://www.pagina99.it/2016/03/14/le-madri-surrogate-soggetti-e-non-oggetto-del-desiderio-altrui/) ribalta uno degli argomenti ricorrenti contro il ricorso alla gpa. Che si potrebbe definire: la demonizzazione del desiderio. Un desiderio di essere genitori, di avere figli a tutti i costi che sarebbe smodato, che soddisferebbe il narcisismo degli adulti a scapito del benessere delle creature che vengono al mondo.
Janeczek ci pone di fronte a condizioni estreme: “Mia madre era sterile. Non completamente, si capisce, altrimenti non sarei nata dopo quasi vent’anni di tribolazioni. Le carte trovate nel suo lascito parlano di una decina di aborti e contengono referti sulle cause di quell’estrema difficoltà a avere figli. Sin dal dopoguerra, la condizione della paziente veniva collegata alla sua storia nel periodo antecedente, in particolare alla deportazione a Auschwitz, cosa che spiega perché quei documenti siano conservati tra la corrispondenza con l’ufficio per i risarcimenti alle vittime del nazismo. Mia madre era stata allettata durante l’intera gestazione, sgravata all’ottavo mese con un cesareo per dovermi consegnare subito a un’incubatrice. Prima di tornare a casa, i miei genitori assunsero una puericultrice raccomandata che avrebbe saputo cogliere in tempo qualche sintomo allarmante, tenere a bada un’ansia proporzionale al miracolo, e permettere a mia madre di riprendersi dagli stremi di quella lotta decennale”.
Ho riportato per esteso questa forte testimonianza individuale, portata con molta consapevolezza e generosità nella discussione pubblica, perché aiuta a chiarire il campo di una materia complessa. O meglio, rende evidente che i problemi che la gpa pone alla nostra attenzione, entrano in profondità nello stesso fondamento dell’esistenza umana, mettono in gioco una pluralità di comportamenti e punti di vista, che non si possono ridurre a uno schieramento. Se è realistico argomentare che non tutti i desideri possono realizzarsi, e che soprattutto i desideri non sono di per sé la fonte di un diritto, il rischio molto concreto è di spostarsi su un terreno moralistico e censorio. Come se desiderare fosse di per sé negativo, come se proiettarsi nel futuro e nelle generazioni non fosse uno dei fondamenti dell’agire umano. Come se il desiderio di curare la sterilità non sia antico ed elementare. Tanto più una riflessione senza pregiudizi sul desiderio di essere genitori mi sembra necessaria nella situazione attuale, ora che l’uso di massa della pillola anticoncezionale ha diviso la procreazione dalle pratiche sessuali. Avere figli, nel mondo occidentale e non solo, è una scelta. Cioè frutto di un progetto, un desiderio. Non solo per gli uomini, che di fatto hanno sempre “scelto” quali bambini – di quelli che hanno contribuito a mettere al mondo – rendere propri, attribuendo loro il proprio nome. Questo oggi succede anche per le donne. La maternità non è più un destino. Ma se questo è il contesto, indispensabile per comprendere quanto succede, torniamo a stringere l’attenzione e la riflessione al tema della gestazione per altri.
Cresce la mobilitazione per il divieto universale della gpa
In effetti non è la riflessione il modo più diffuso per affrontare la gpa. Tantomeno la consapevolezza della complessità. Anzi, cresce la mobilitazione contro, in Italia e nel mondo, che inevitabilmente costringe, o vuole costringere, allo schieramento. Con un corollario pesante di anatemi, condanne, giudizi. Una mobilitazione che divide i femminismi, e all’interno dei femminismi, le diverse generazioni. L’appello per “La carta per l’abolizione universale della maternità surrogata” che sono partiti dalla Francia per iniziativa di Sylviane Aganciski, famosa femminista e socialista, moglie di Lionel Jospin, ripreso in Italia da Se non ora quando–Libere, ha ora investito le istituzioni. In febbraio il Parlamento francese ha dedicato tre ore di discussione al tema, al cui termine molti parlamentari hanno firmato la carta. Il 15 marzo scorso il Consiglio di Europa ha bocciato per un voto (16 i contrari, 15 i favorevoli) la relazione che proponeva un’apertura, con regole molto definite. Del resto già nel dicembre 2015 il Parlamento europeo, nel contesto della Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo, aveva votato un emendamento che “condanna la pratica della maternità surrogata”. Anche in Italia si preparano iniziative istituzionali. In maggio torna alla Camera la legge sulle Unioni Civili, da cui come è noto al Senato è stata cancellata tutta la parte che riguardava la cosiddetta stepchild adoption, l’adozione dei figli del partner. In vista della discussione, e dopo l’appello alle parlamentari della Ministra della salute Beatrice Lorenzin per il divieto universale della gpa, si prepara una mozione condivisa da molte parlamentari di tutti gli schieramenti. Colpisce questa sintonia diffusa, in cui è in prima linea tanto femminismo. E di sicuro il primo sentimento, di donne e uomini, è un no istintivo, primario. Il corpo delle donne non si tocca. O il corpo della madre? E siamo sicure che sia la stessa cosa?
Insomma, è un’esigenza di pensiero critico che spinge a considerare con attenzione. A non aderire a questo sentimento popolare e sicuramente maggioritario. A indagare. A partire da sè, secondo l’insegnamento principe delle pratiche femministe. Il rifiuto istintivo ha fatto spazio all’osservazione, all’ascolto, prima di tutto delle donne che raccontano la loro esperienza di gestanti per altri. Soprattutto sono aumentati i dubbi. Come mai queste fiere opposizioni al mercato, alla schiavizzazione, sono così universali e immediate solo su questo terreno? E come mai tutte queste preoccupazioni per l’utero?
L’utero, la parte per il tutto
È un destino curioso, quello dell’utero. Organo misterioso, interno e nascosto, da sempre determina il destino delle donne. Anzi ne diventa un’epitome. Uterine per definizione, soggette ai suoi umori e spostamenti, fino a farne l’origine di una malattia che è arrivata al cuore della modernità. Sigmund Freud costruisce la scoperta dell’inconscio e la sua talking cure, la psicoanalisi, nell’incontro con le meravigliose isteriche del suo tempo, donne troppo intelligenti e desideranti per adattarsi a un’epoca in cui l’anatomia era un destino, come ebbe a dire. Interessante l’esempio usato, le donne che non potevano usare il violoncello per via dell’inimmaginabile posizione a gambe aperte.
Oggi l’utero non è più invisibile. Occupa il centro della scena, da quando l’ecografia è diventata lo strumento con cui si possono vedere gli interna corporis. E l’ecografia in diretta del ventre di una donna incinta è diventata protagonista di talk show televisivi. Cioè il corpo della donna, l’utero in particolare, è diventato spazio pubblico, come ha scritto la storica Barbara Duden in un libro degli anni novanta (Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di vita, Bollati Boringhieri 1994), che ha segnalato lo spostamento in corso, la nuova elaborazione sociale intorno al corpo della donna. Una centralità che oggi è incombente, quasi soffocante. Cosa si difende, quando si sostiene il divieto universale dell’utero in affitto, come viene denominato con intento provocatorio nella Carta? Si combatte la libertà delle donne di non essere fatte a pezzi, di non essere considerate solo per la capacità del loro corpo di procreare? Più l’utero è in mostra, è ostentato, occupa i titoli dei media e le menti, più il contenuto della battaglia appare singolarmente opaco. E singolarmente, proprio mentre sono le donne a parlare, le donne spariscono, e ricompare la madre. È lei che occupa la scena. Siamo sicure – e sicuri – che sia molto diversa dalla figura a cui il patriarcato ha eretto uno storico altare?
La sfera pubblica, il nuovo contratto
È evidente che la gpa crea sgomento, in tutte e tutti. Mette in discussione ciò che finora era fuori dalla portata umana. E non solo per chi affida alla fede, a Dio o come sceglie di nominare l’ignoto, la gestione dei misteri della vita. Anche le mentalità più laiche e razionali sono costrette ad affrontare schemi ereditati e pochissimo discussi, anche nelle visioni progressiste. La riproduzione della vita era affidata alla sfera privata, nel patto sociale che è a fondamento del mondo industriale e borghese. Una zona d’ombra, fuori dalla luce pubblica, in cui nella quiete dell’intimità e della disponibilità di ciascun uomo, anche il più miserabile, era possibile accudire la vita. Affidata alla donna, che ne era signora esclusiva, finché adempiva al destino che le era assegnato.
Proprio la discussione pubblica, fino ai più alti livelli istituzionali, segnala che questo patto è sottosopra. E non per via delle tecnologie riproduttive, che pure ne sono uno strumento e un’amplificazione. È cambiato il contesto, come già indicato. Sono cambiati i protagonisti. Le donne, prima di tutto. E i portatori/portatrici di orientamenti sessuali diversi. Insieme hanno messo in discussione le norme sessuali, la struttura stessa della famiglia patriarcale. Eppure, proprio le modalità di questa discussione pubblica suscitano più di una perplessità. Questioni fondamentali come il venire al mondo, di chi si è figli vengono affrontate con lo spirito del tempo. Appello alle emozioni, populismo, costruzione di consenso per politici in difficoltà. Nello spazio di una democrazia sempre meno credibile e sempre meno rappresentativa. Perché dovrebbe esserlo su questo? Quale patto si può costruire, con la nostalgia e l’invocazione del passato?
Un nuovo contratto è necessario, difficile pensare che avvenga attraverso divieti. Il processo non può che essere plurale, e aperto alle diverse voci.
Di chi sono figli i figli?
C’è una voce che è sempre difficile ascoltare, quando si parla di venire al mondo, di famiglia. La voce dei nuovi venuti, dei figli. In quale posizione verranno a trovarsi, quali saranno le loro possibilità di vita? Sarò brutale. Sono convinta che la questione sia in buona parte retorica, e anche ipocrita. Si viene al mondo senza essere interpellati, in condizioni che quasi mai avremmo scelto, perfino nelle migliori situazioni. Le occasioni di sofferenza sono infinite, e se la povertà, le guerre, l’abbandono sono immediatamente riconoscibili, perfino il crescere in una famiglia “normale” non garantisce non dico la felicità, ma la buona riuscita. Del resto l’acquisizione comune del punto di vista dei “figli”, dei piccoli, è veramente recente, nella vicenda umana. Forse appartiene alla generazione del secondo dopoguerra del Novecento, i babyboomers., e si è trasmessa alle successive. E come tutti i punti di vista, se diventa totalizzante, può generare squilibri e inquietudini. Più i bambini sono scarsi, più le esigenze diventano alte, più si idealizzano. I bambini, come le madri. La dedizione non sarà mai sufficiente, altro che le madri “sufficientemente buone” di cui realisticamente parla Donald Winnicot. Ma non voglio inoltrarmi in una fenomenologia dei nuovi genitori. Ciò che interessa sono la totalizzazione, l’idealizzazione di un’esperienza, e il carattere regressivo che assume, pur nel contesto di una compiuta contemporaneità. Anzi, proprio per questo. Le coppie, le relazioni cambiano, nell’antropologia vissuta. Eppure si rifanno a ideali, a stereotipi che riproducono antichi modelli. Mammina è sempre mammina, anche nel contemporaneo.
Nell’ombra scura dello stereotipo che si riproduce, non stupisce che non si voglia pensare alle reale condizione dell’essere figlio. Si è figli di chi ti accoglie, di chi ti ama, di chi ti riconosce, di chi ti dà il nome. Da sempre gli adulti esercitano nei confronti di chi arriva al mondo il loro cuore e il loro potere, a seconda delle loro scelte. Anche le madri carnali, che possono certo amare, ma anche abbandonare, rifiutare, disconoscere. Come l’umanità sa sulla sua pelle. Difficile pensare che la gpa cambi questa condizione, neanche se a scegliere di farti venire al mondo sono due maschi. Chi è così stupito del fatto che uomini che si amano possano desiderare di essere padri, o due donne di essere madri, dovrebbero ricordare che in passato le persone omosessuali si sposavano. E avevano figli. Rientravano cioè nelle forme di filiazione previste dalla norma. Ma quanta infelicità, quanto dolore. Per tutti. Compresi i/le loro partner. Perché non si può pensare che si è alla ricerca di nuove forme, più adatte e definire di chi sono figli i figli, in una pluralità di relazioni che oggi sono venute alla luce e occupano lo spazio pubblico? È probabile che la gpa, come la conosciamo ora, non sia la migliore. Ma perché criminalizzare chi sta cercando? Perché non vedere che se le regole sono chiare, si riduce la possibilità di creare delle vittime? Cosa che il proibizionismo non garantisce?
Corpi, madri, mercato
Non si può sfuggire al tema dello sfruttamento, del mercato, del neoliberismo. C’è una doppia faccia, nella relazione tra gpa e neoliberismo. Vanno viste entrambe. Una è quella regressiva, l’idealizzazione di stereotipi antichi in un contesto del tutto modificato. Spinge a guardare indietro, a una torsione che ostacola la consapevolezza del presente. Un presente che è fatto di messa al lavoro. Messa al lavoro di tutte le eccedenze. A cominciare da quella più preziosa, quella femminile. Cura, accudimento, sono qualità che il mercato ha già fatto proprie. E la separazione della produzione di figli in più segmenti è parte intrinseca di questo processo. Il punto è che proprio la torsione regressiva, l’idealizzazione della maternità, della famiglia, impedisce di vederlo. Impedisce di vedere che ci sono soggetti, non vittime, certo ad alcune condizioni, e se si è disposte a stabilire relazioni. Ma che opportunamente protette, come dovrebbe essere negli obiettivi di una politica di sinistra, le donne possono piegare a loro obiettivi, a una loro soggettivazione, la capacità di procreare del proprio corpo. Certo, pensare alla procreazione come una capacità, ha l’effetto di un pugno nello stomaco. Implica una dose consistente di oggettivazione. Ma non è riduzione in schiavitù, anzi. E lancio qui un azzardo. Non potrebbe essere una via per ripensare la maternità? Forse si perderebbe in sacralità, ma ne potrebbe guadagnare la reale libertà. Delle donne. Anche degli uomini. Ancora. Perché non prendere sul serio quello che dicono le donne che hanno scelto di fare le gestanti per altri? Parlano di un piacere, di essere disponibili a rendere felici altre persone che non possono avere quello che loro hanno. Retorica, menzogne che coprono ignobili traffici? Il sospetto è sempre necessario, ma si dovrebbe nutrire anche al contrario. Il sospetto di non capire tutto, che quei “rimborsi” che ci indignano non siano sufficienti a comprendere tutto. Che ci sia altro, che non viene coperto dal denaro. Perché escludere che questo scambio possa avvenire all’interno di quelle linee gialle di cui parla Paul Mason? (Postcapitalismo: una guida al nostro futuro, Il Saggiatore 2016), quelle linee che l’astronave osserva sulla terra: “Sembra che le linee gialle segnalino scambi di beni, lavoro, servizi tra persone, che però non avvengono attraverso il mercato”.
Insomma, io diffido di chi grida ad alta voce allo sfruttamento, quasi solo in questo caso. Non mi sembra il punto di partenza per una presa di coscienza, per il cambiamento della relazioni uomo/donna, per il ribaltamento del sistema neocapitalistico. Temo anzi il contrario. E soprattutto temo l’innalzamento definitivo e magniloquente ai cieli della madre.
Paura, potere, immaginazione
Non posso fare a meno di ricordare, ancora una volta, “Il racconto dell’ancella” la distopia di Margareth Atwood pubblicata nel 1985, in pieno backlasch antifemminista. In un mondo in cui fondamentalisti biblici hanno preso il potere e estromesso le donne, la scena della procreazione è spezzata, e divisa in più attori, immolati all’altare della norma e della repressione. La Moglie non fa sesso e non fa figli, ma assiste al coito che porta all’ingravidamento. Naturalmente la proibizione prevede bordelli e trasgressioni. E pericolo. È questa la paura? Che il potere degli uomini ricrei antichi schemi? Per questo tanta parte del femminismo italiano e internazionale si schiera contro la gpa? Temono il riproporsi di questa scena?
Preferisco rileggere “La mano sinistra delle tenebre” un famoso libro di fantascienza di Ursula Le Guin, pubblicato nel 1969. In un pianeta gelido, dominato dai ghiacci, arriva un osservatore terrestre. Che si trova di fronte a una particolare evoluzione, umani non hanno sesso, tranne che per un particolare periodo, detto kemmer che dura al massimo due giorni, in cui possono diventare indifferentemente maschi o femmine. A tutti quindi può succedere di essere incinti e partorire. È un bel libro, di forte immaginazione, che ha accompagnato il femminismo di terza ondata, come periodizzano le anglosassoni. Sostiene un desiderio, forse permette di pensare una possibilità. Il femminile non coincide con un corpo e un sesso, come del resto il maschile. E pur avendone la possibilità, non tutte le donne si vogliono madri. E non temono di perderne il potere.