Pubblicato sul manifesto il 26 aprile 2016 –
Come difendersi dagli eccessi retorici quando viviamo il giorno della Liberazione? Ho letto – sul Corriere della Sera, in articoli di Marco Cianca e Aldo Cazzullo – parole belle, ma molto preoccupate del fatto che le passioni della memoria antifascista continuino ancora oggi a sollevare divisioni e rancori.
Certo è desiderabile un sentimento comune sui valori della democrazia, e anche sul senso di appartenere a una nazione. Tuttavia il conflitto, non distruttivo secondo la logica amico-nemico, ma capace di non rimuovere le differenze nei desideri, nelle culture, e negli interessi personali e collettivi, né le diverse collocazioni rispetto al potere, è il cuore stesso di una democrazia e di una politica che non rinuncino all’anima.
Ho avuto la fortuna di raccogliere il racconto di un uomo che entrò nella Resistenza molto giovane, studente di filosofia a Milano, a 17 anni. A 18 saliva su una seggiola che gli porgeva un altro ragazzo, operaio, per parlare di libertà agli operai dell’Ansaldo San Giorgio di Genova, in fila per prendere la paga. Erano gli ultimi mesi prima di quel 24 aprile in cui i tedeschi si arresero ai partigiani, prima che arrivasse l’esercito alleato. Ho conosciuto Aldo Tortorella molti anni dopo, quando entrai nella redazione genovese dell’Unità, di cui era direttore. E il mio capo cronista era Flavio Michelini, quel ragazzo che gli porgeva la seggiola.
Del racconto di Tortorella (che sarà pubblicato dall’Istituto ligure per la storia della Resistenza) cito poche delle molte cose chi mi hanno colpito. Intanto il fatto che dopo quel comizio volante alla San Giorgio, molti altri furono organizzati davanti alle fabbriche dal Fronte della gioventù (Aldo ne era il responsabile) e mai nessuno denunciò il fatto alla polizia o ai fascisti. Una delle molte prove del sentimento diffuso di ostilità al regime e all’occupazione nazista, al di là di certe forzature “revisionistiche” sulla lotta di liberazione in Italia. Forse l’unico paese dove operarono – strana contraddizione in termini – organizzazioni clandestine “di massa” (artefici dei grandi scioperi del marzo del ‘43 che precedettero il collasso del regime, e poi ancora nel ’44, sotto l’occupazione tedesca).
Un’altra cosa che mi ha fatto riflettere sono i dubbi del giovanissimo e impegnatissimo Tortorella: chiede che cosa si debba pensare dei processi staliniani ai comunisti che lo reclutano, come Quinto Bonazzola (solo di qualche anno più anziano di lui: altra indimenticabile presenza all’Unità di Milano) e al suo capo delle SAP liguri, l’operaio Carlo Venegoni. Ne ricava due “sentenze” che reputa basilari per la propria formazione. “Noi non sappiamo ancora – gli dice Quinto, appassionato come lui di filosofia – se il difetto è nel sistema o del sistema”. Mentre Venegoni, alzando al cielo la mano destra (dalla quale mancava il pollice, lasciato in un macchinario della Tosi), afferma che “i processi sono tutti falsi, ma dobbiamo stare con l’Unione sovietica”. Venegoni aveva fatto parte della pattuglia bordighiana che si era opposta a Gramsci, ma al momento della guerra aveva scelto l’unità nel partito e nella Resistenza. L’Urss era la potenza “socialista” che aveva appoggiato la Repubblica Spagnola contro Franco, che aveva sconfitto Hitler a Stalingrado. I dubbi torneranno, molto più forti, quando – nel ’56 – i carri armati sovietici entrano a Budapest.
Il conflitto non è solo il contesto necessario della democrazia, è anche la dimensione interiore e individuale che rende sofferte ma consapevoli, e libere, le scelte politiche più difficili.