Pubblicato sul manifesto il 15 marzo 2016 –
Forse doveva succedere che questa rubrica si imbattesse nella parola parole. Ma è un proposito di smisurata ambizione affrontarne il senso. Per ora mi limiterò a dire che cosa me lo ha fatto venire in mente, e schiverò le maggiori difficoltà citando persone sicuramente più competenti. Negli ultimi tempi ho partecipato a numerosi incontri, promossi da donne, e da donne femministe, sui dilemmi etici, simbolici e giuridici sollevati dall’ “utero in affitto”. Ma ecco che il primo dilemma è proprio linguistico: é giusto dire così o si devono utilizzare altre parole, come ” maternità surrogata” o ” gestazione per altri”? Ogni diversa espressione sottintende più o meno apertamente giudizi di valore e di fatto molto diversi. E prima di iniziare questa nota mi sono ricordato improvvisamente di aver scritto molti anni fa ( sull’Unitá e sul n. 49 di Via Dogana – correva l’anno 2000) qualcosa sul primo caso giudiziario che aveva destato scalpore e un acceso dibattito pubblico: nella sentenza con cui una giudice aveva autorizzato questa pratica voluta da due donne ( e i loro compagni) era stato scritto “utero in prestito”. Un altro spostamento di significato.
Non entrerò adesso in questa discussione, se non ricordando una osservazione ascoltata da Luisa Muraro, secondo la quale “è nel linguaggio la massima autorità”. Credo se ne possa desumere – soprattutto in tempi di scarsità di autorità riconoscibili e riconosciute – che prima di precipitarsi a varare nuove norme e leggi sia opportuno provare a intendersi sulle parole.
Per farlo bisogna imparare a “abitare le parole“, senza trascurare che si tratta di cose piuttosto mobili, e infatti si dice che “le parole volano” ( dal detto latino verba volant, scripta manent). Queste due espressioni sono altrettanti titoli di due rubriche tenute da autori verso i quali provo una certa invidia. Il primo è Nunzio Galantino, segretario della Conferenza Episcopale Italiana, che ha inaugurato la nuova rubrica domenica scorsa sulla Domenica del Sole 24 ore. E come prima parola ha proposto – nientemeno – la parola Dio. “La più complessa di tutte – dice lui stesso -… Una parola-paradosso“. Mi limito a dire che ho trovato molto simpatico, e tipico di un esponente della Chiesa di Francesco, che Mons. Galantino ne discuta rivolgendosi all’ateo Dario Fo ( che da par suo ha appena pubblicato un libro che si intitola Dario e Dio) .
Il secondo autore è Edoardo Sanguineti, che negli ultimi mesi della sua vita scrisse sul Secolo XIX nove puntate della rubrica “le parole volano”, ora raccolte in un libriccino edito da il canneto con una nota introduttiva di Giuliano Galletta e un saggio di Enrico Testa sulla lessicomania di Sanguineti. Da qui posso rubacchiare una parola assai meno impegnativa di Dio, ma non priva di una sua drammatica attualità: fattoide. Sanguineti dedica a questo neologismo ben due puntate, inseguendone l’origine fino all’ americano Norman Mailer, che avrebbe usato per primo il termine factoid a proposito di certe biografie romanzate di Marylin Monroe. Fattoide è “un fatto presentato nella narrazione in modo deformato”. Ossia, per usare il lessico di Gillo Dorfles citato da Sanguineti “un fatto che è fittizio, non reale, simulato, o delusorio”.
Così riesco a concludere con una piccola morale per così dire metodologica: spesso si parla del potere performativo del linguaggio, sottintendendo la capacità di cambiare le cose e di farne nascere di nuove grazie all’uso delle parole. Ma senza trascurare il rischio che adoperandole in modo maldestro (o malintenzionato) si ottenga la mera produzione di fattoidi.