Questo articolo è una rielaborazione dell’intervento pronunciato da Letizia Paolozzi al recente convegno della Città Vicine a Roma. Un resoconto dell’iniziativa si può leggere in questo testo di Franca Fortunato.
Un neonato viene fatto passare sotto il filo spinato. E’ l’immagine di un confine oltrepassato grazie all’amore del padre. Di questo padre, di questo immigrato, di questo siriano. O afghano, forse, che arriva da un luogo lontano. Niente può arrestarlo. Scommette; rischia. Affronta quel cimitero marino che è diventato l’Egeo, il Mediterraneo. Tra la Turchia e l’isola di Lesbos; tra il porto libico di Zuwara e Lampedusa, fuggendo dai deserti africani. Oppure, marciando per mesi lungo le rotte balcaniche.
La foto ci racconta “orrori, ingiustizie, e menzogne nella crisi che forse travolge il progetto dell’Europa unita” (Alberto Leiss). Di una democrazia a ventotto popoli, dove il muro (ungherese, polacco, slovacco, ceco) oppure il confine chiuso (dell’Austria) può prendere in ostaggio gli altri ventisette popoli.
Dopo la strage al Bataclan, “Le Monde”ha pubblicato i necrologi delle vittime: “Centotrenta persone hanno trovato la morte negli attacchi del 13 novembre a Parigi. Brutalmente strappate a quanti li vedevano ogni giorno, esse fanno oggi parte del nostro universo, di tutti. Non ci lasciano più. Rifiutandoci di ridurle a una cifra, centotrenta, e a uno statuto, quello di “vittime”, abbiamo voluto dare loro un volto. Raccontare chi erano, restituire loro la loro vita attraverso quelli che li conoscevano e li amavano. Fare spazio nel nostro ricordo, a tutti, senza eccezione”.
Fare spazio alle immagini di ragazzi e ragazze che sorridono. Le famiglie hanno scelto quei sorrisi a corredo delle centotrenta biografie giacché, scrive il quotidiano, ciascuna esiste individualmente. Le vite degli altri, appunto. Intessute di curiosità, di baldanza, di dedizione, di cura. Intrecciate alle Reti di volontariato, Ong, associazioni dedicate ai più vulnerabili.
Narrano, i necrologi, di un’Europa costretta a fare i conti con l’accoglienza, la protezione sociale, la fatica del welfare. E il terrorismo, l’integrazione, la vittoria della paura.
Quella foto del neonato; quelle biografie sono il tentativo (linguistico) di reinvenzione dell’Europa. Sperimentano un vocabolario diverso, capace di esplorare la realtà, guardare i corpi, nominare le relazioni.
Nel 2005 viene sconfitto il tentativo di varare una costituzione composta da 448 articoli: troppi, francamente. Ora l’assetto europeo poggia sul trattato di Lisbona, zeppo di protocolli allegati e regole in bilico tra le convenienze dei singoli stati mentre il Six-pack controlla l’austerità nelle nostre esistenze.
Per Thomas Piketty all’Europa manca un investimento sul futuro. Colpa e debito: ventotto paesi ripiegati sugli interessi individuali e tra gruppi, senza una costruzione politica comune. Si capisce che il vuoto lo riempia il populismo, il nazionalismo mentre si approfondisce il fossato culturale tra nord e sud. Intanto, non mi pare scongiurato il rischio del Brexit.
Bisogna cambiare rotta. A partire dal linguaggio. La vecchia distinzione tra migranti e rifugiati, tra migrazione per ragioni economiche o per ragioni politiche è sempre più incerta. Arrivano da luoghi in decomposizione (Iraq, Siria, Libia) quanti fuggono dalla guerra o dalle carestie; ma anche quelli che sognano; quelli che vanno a cercare fortuna.
In Italia, il 90 per cento dei richiedenti asilo è di sesso maschile; in Europa le donne sono il 27 %. Nella notte del 31 dicembre a Colonia, giovani uomini si sono disposti nei tre cerchi (“taharrush gamea”) intorno alla vittima prescelta. Era già accaduto, durante le “primavere arabe”, in piazza Tahir. Uscire dalla forma mentis del patriarcato? Parlare una lingua che sappia mettere in relazione con l’Altro (Emmanuel Lévinas) e con l’alterità della differenza sessuale? Mi pare che l’Europa, in quanto spazio economico-finanziario, non sia proprio adatta.