Pubblichiamo una riflessione di Claudio Vedovati sul dibattito aperto sulla maternità surrogata, anche in vista del confronto previsto lunedì 29 a Roma per iniziativa del Centro per la riforma dello stato e del Gruppo del mercoledì sullo stesso tema: ne riproduciamo l’invito.
La discussione di questi giorni sulla maternità surrogata o di sostituzione mi ha riportato in mente le riflessioni di alcune donne della differenza svolte ormai 20 anni fa, quando ci si cominciava a interrogare sulle trasformazioni prodotte dalle nuove tecnologie nello scenario della riproduzione. Si discuteva allora del potere sociale acquisito dalla medicina nel campo della procreazione, dell’uso del termine “artificiale”, della diagnostica prenatale e della fecondazione in vitro, della maternità surrogata e della possibilità di realizzare un utero non umano.
Allora come oggi, forte era la preoccupazione che uso e significati associati a queste tecnologie producessero nuove forme di occultamento del corpo e della soggettività delle donne e dunque uno svuotamento simbolico del primato femminile nella procreazione. Il fenomeno era visto tenendo conto sia della separazione tra sessualità e riproduzione, di cui si era fatto carico anche il femminismo, sia di quel processo secolare con cui il patriarcato ha cercato di prendere il controllo del generare. In quest’ultimo caso, da cogliere era il passaggio dal controllo maschile del corpo della donna alla fantasia della sua totale rimozione e insieme la tentazione di cancellare l’asimmetria dei sessi nella generazione attraverso una idea di genitorialità omologata al modello maschile, cioè tutta “sociale”, slegata dalla gestazione.
La mossa davvero interessante di quelle riflessioni – mi riferisco ai testi di Maria Grazia Giammarinaro, Grazia Zuffa, Maria Luisa Boccia, Tamar Pitch – fu quella di uscire dall’opposizione tra proibizionismo e libertà contrattuale, tra universalismo dei diritti e libero mercato dei corpi. In entrambi i casi, fu fatto notare, non si dà la rappresentazione simbolica del primato femminile nella procreazione. Scriveva Giammarinaro “a una donna non si può imporre di essere o non essere madre […] di usare o non usare il proprio corpo a fini riproduttivi. Non lo può imporre una legge dello stato e non lo può imporre il contratto”.
In quel contesto, il femminismo rifletteva sulla nozione di “diritto minimo”, un diritto non divaricato dalla realtà, non prigioniero di principi assoluti (l’uguale per tutti, la vita), capace di corrispondere all’ordine delle relazioni (e non viceversa). Diritto minimo significava – e significa ancora – che c’è un limite che va posto alla legge, prima ancora che sia la legge a imporre i primi limiti alle relazioni. Il limite simbolico e pratico era individuato proprio nel primato femminile nella procreazione.
Nella discussione aperta dall’appello perché la maternità surrogata sia “messa al bando”, promosso da SNOQ/Libere, non vedo più traccia di queste riflessioni.
Se ne vedono le conseguenze nelle argomentazioni. Quando le argomentazioni piegano la libertà alla logica del diritto: contestare l’idea che maternità e paternità siano dei diritti (e infatti non si diviene madri e padri in forza del diritto) appellandosi però al diritto per vietarne alcune forme (e non sarà la “forza” del diritto a farlo). E quando le argomentazioni mettono sotto tutela la libertà femminile, come quando si presuppone che di fronte alla logica del mercato l’autonomia di alcune donne venga meno, perché incapaci di non farsi sfruttare (tanto più se sono le donne di paesi diversi dai nostri). L’appello in sostanza non cambia l’ordine del discorso (diritto/mercato) e fa un discorso che non può più fare ordine.
Io penso che la scommessa, di fronte alle grandi trasformazioni che caratterizzano il nostro venire al mondo, è che sia la differenza tra i sessi – e non le leggi – a fare ordine nelle nostre relazioni. Occorre tener ferma dentro ciascuno di noi, uomini e donne, questa differenza, per garantire che la mediazione femminile nella procreazione non venga mai meno, anche quando è quella di una donna che sceglie la maternità surrogata.
Lasciare che la libertà inciampi e risolva da sé le proprie contraddizioni non è il ritorno alla legge del padre.
Claudio Vedovati , Roma 10 dicembre 2015
Il seminario organizzato da CRS e Gruppo del mercoledì
Lunedì 29 febbraio 2016, h. 16,30. Sala della Fondazione Basso in via della Dogana vecchia, Roma
Gestazione per altre/i
Soggettività femminile negli scenari della globalizzazione
Maria Luisa Boccia e Federica Resta introducono un confronto pubblico a partire dagli scritti di:
Caterina Botti, Riproduzione, soggettività e relazioni Grazia Zuffa, Guardare il mondo con i nostri occhi pubblicati nell’ultimo numero di Leggendaria, n.115/2016, Mamme mie.
Se dunque proviamo a dare una norma fissa che definisca, per esempio, il “modo umano” di fare figli, per quanto ampia questa norma ci possa sembrare, per quanto antica e autorevole essa ci possa apparire (o, al contrario, nuova e progressista), corriamo sempre il rischio che essa risulti violenta e condanni determinate esperienze all’invisibilità, o viceversa che tale norma venga smentita nei fatti o contestata proprio sulla base dell’esperienza di altri che finalmente guadagna visibilità (Caterina Botti).
Nel caso della maternità di sostituzione, può essere difficile parlare di autonomia in presenza di rapporti di denaro/potere spesso così svantaggiosi per molte donne. La difesa delle donne dallo sfruttamento è l’argomento principe di chi propone la proibizione. Ma va ricordato che questa si colloca in una tradizione patriarcale in cui il corpo femminile è stato oggetto di normazione e divieti feroci, a iniziare da quello d’aborto. Ed è difficile che la libertà femminile possa avanzare fra prescrizioni e controlli. Per non dire che appare paradossale difendere l’opera di “corpo e di mente” della gravidanza, separandola dalla soggettività delle donne stesse (Grazia Zuffa).