Emile-Auguste Chartier
Che senso può avere parlare di
gentilezza in un momento in cui la violenza più ottusa sembra aggredirci quasi da ogni lato? Certo si possono invocare le parole del vecchio Brecht, uno che non sottovalutava la necessità di reagire anche con mezzi estremi ai soprusi dei forti contro i deboli (e che scrisse: “…Noi che volevamo apprestare il terreno alla gentilezza / non potemmo essere gentili..”)
Ma oggi me la cavo citando abbondantemente uno scritto di Emile-Auguste Chartier, più noto con lo pseudonimo di Alain, di cui ho appreso tempo fa l’esistenza soprattutto perché fu maestro ascoltato e amato di Simone Weil.
Dunque “la gentilezza – scrive Alain nel gennaio del 1922 – si impara come la danza. Chi non sa danzare crede che la cosa difficile sia conoscere le regole della danza e uniformare a queste i movimenti. Ma è la parte formale. Bisogna riuscire a danzare senza rigidità, senza agitazione e quindi senza paura. Così non basta conoscere le regole della buona educazione. E quando si rispettano non si è che agli inizi. Occorre che i movimenti siano precisi, sciolti, senza rigidità nè turbamenti, perché ogni minimo turbamento si comunica. E che gentilezza è, se inquieta? (…) Un uomo turbato dalla propria forza non disciplinata cosa arriverà a dire se si irrita e va in collera? Per questo non bisogna mai alzare la voce. Chi incontrava Jaurès a un ricevimento vedeva un uomo poco attento alle opinioni e agli usi e spesso trascurato nel vestire. Ma la voce era tutta una gentilezza, una dolcezza cantante assolutamente priva di toni forti. Cosa miracolosa, se si ricorda la sua metallica dialettica e i suoi ruggiti, voce del popolo leone. La forza non è l’opposto della gentilezza, ne è un ornamento, è un potere che si aggiunge al potere”.
Spesso invece l’incertezza di sè, la timidezza, scatenano maleducazione e furore “anche nelle opinioni più innocue”. Si tratta, continua Alain “di una specie di terrore che il suono della propria voce e i vani sforzi contro se stessi non fanno che aumentare. E può darsi che il fanatismo derivi dalla maleducazione, poiché bisogna pur dar prova, alla fine, di quello che, anche involontariamente, si va esprimendo. Così il fanatismo potrebbe essere frutto della timidezza, paura di non riuscire a sostenere efficacemente quello in cui si crede; infine, quando la paura è diventata insopportabile, furore contro se stessi e contro tutti, che trasmette una forza paurosa anche alle opinioni più incerte. Osservate i timidi quando prendono partito, vi renderete conto che i modi convulsi sono uno stravagante metodo di pensiero. E così si arriverà a capire come il tenere in mano una tazza di tè possa rendere civile una persona. I maestri d’armi giudicano l’abilità di uno spadaccino da come riesce a girare il cucchiaino in una tazza di caffè, senza fare un movimento di troppo”.
Non c’è qualcosa di attuale in queste considerazioni?
Sono parole scritte subito dopo la catastrofe europea della Grande Guerra, alla quale Alain si era radicalmente opposto, e partecipandovi da caporale (ho letto che aveva rinunciato a ottenere gradi più elevati) ne aveva descritto gli orrori in un libro uscito negli stessi anni, Marte, o il giudizio sulla guerra. Non sembrano casuali i suoi riferimenti al rapporto tra la gentilezza, la forza e la maestria nelle armi. In un altro testo di molti anni prima (1911), sempre su un tema che evidentemente gli stava a cuore, osserva che “i modi volutamente gentili non sono gentilezza. Per esempio, un uomo realmente beneducato potrà trattare duramente e perfino con violenza una persona spregevole o cattiva…”
Altri consigli di Alain nel volumetto
Propositi di felicità , edito da Elliot (2013)
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