IL FIGLIO DI SAUL – Film di László Nemes. Sceneggiatura di László Nemes e Clara Royer. Con Géza Röhring, Levente Molnár, Urs Rechn, Sándor Zóstér, Christian Harting, Marcin Czarnick, Todd Charmont. Direttore della fotografia Mátyás Erdély. Suoni di Tamás Zányi
Auschwitz 1944. “Il figlio di Saul” è un film molto duro, dove la violenza è tangibile ma non è manifestata attraverso le immagini, non ci sono descrizioni o spettacolarizzazione delle camere a gas, ma ci sono i suoni, i rumori, le urla. I corpi si possono intravedere nel voluto “fuori fuoco”. Tutto è claustrofobico e visto ad altezza d’uomo. Solo un paio di scene in esterno – l’arrivo e la fuga – dove si vede la bellezza della natura incontaminata che contrasta manifestamente con l’organizzazione perfidamente scientifica dello sterminio.
Il film parla anche del ruolo importante della memoria e della testimonianza segnando il passaggio della “custodia della memoria” dalla generazione dei coinvolti a quella degli “eredi” che sono ormai contigui alla dimensione della storia. Nel film da un lato, c’è il tentativo dei ribelli di rimediare una macchina fotografica per rappresentare la tragedia di immani proporzioni dei campi di sterminio, dall’altro, lo sguardo del bambino che, nel finale vede i fuggiaschi e poi sente gli spari, costituirà proprio il ricordo del sopravvissuto.
Lunghi piani sequenza con la macchina da presa (in pellicola formato 4:3) ad altezza di spalla che, quando non inquadra nei primi piani il protagonista eternamente in scena, lo segue ovunque: una “maschera di ferro” in cui il terrore e l’alienazione hanno tolto qualsiasi emozione. Non ci sono i buoni e non c’è pietas c’è solo la spersonalizzazione e l’innato senso di sopravvivenza che è la molla dei movimenti e fa sì che non si fa più caso a nulla… a meno che non sia l’immagine di un bambino ucciso per soffocamento, dopo essere incredibilmente sopravvissuto alla camera a gas.
Così l’ebreo ungherese Saul Ausländer (il fantastico scrittore e poeta Géza Röhring) cerca di esorcizzare la sua colpa di collaborazionismo –reclutato a lavorare nel Sonderkommando per rimuovere i cadaveri dalle camere a gas e poi bruciarli – nel tentare di dare una dignità alla morte poiché nella vita non esiste più. Il film mostra la sua ossessione nel cercare un rabbino che reciti il Kaddish e che lo aiuti a dare una degna sepoltura a suo figlio (ma sarà veramente suo figlio o è solo simbolico?) per cui rischia più volte la morte pur di sottrarre il cadavere ai forni crematori tra le migliaia di corpi e nella ricerca di un rabbino disponibile. Gli unici momenti di tenerezza li troviamo nello sguardo del padre quando distende il corpo del figlio nel suo letto e quando inizia a lavarlo (rechitzah) con amore e delicatezza. L’ossessione di Saul lo distoglie anche dall’impegno politico e sociale che infervora i suoi compagni ribelli: in lui c’è solo assuefazione e suo unico desiderio è la dignità nella morte. Infatti, nella cultura ebraica essa ha una notevole importanza e sette sono i giorni di lutto stretto.
Così afferma lo stesso protagonista in un’intervista: “Del mondo circostante non si voleva dare un’immagine puramente visiva, ma attraverso l’anima. Nemes non aveva, infatti, l’intenzione di mettere in mostra l’Olocausto frontalmente – in tal caso avrebbe fatto un film horror – bensì, attraverso il mio volto, sempre inquadrato strettissimo. L’altro elemento importante e sconvolgente del film è il suono attraverso il quale si può percepire l’orrore, la disperazione di questi uomini traumatizzati, praticamente ridotti a robot o zombie”.
László Nemes è un giovane regista ungherese, neanche quarantenne, figlio d’arte – anche suo padre è regista – che ha studiato cinema sia a Parigi sia a New York ed è al suo primo lungometraggio. Con lui sembra di ritornare agli anni d’oro dei registi ungheresi del “Nuovo cinema ungherese” come ad esempio Miklós Jancsó negli anni Sessanta. Già premiato a Cannes e vinto il Golden Globe, il film è candidato meritatamente all’Oscar 2016 come migliore film straniero.