Pubblicato sul manifesto il 27 ottobre 2015 –
Chissà che, finalmente, non giunga a una più generale consapevolezza un punto che mi sembra fondamentale per ripensare i modi in cui facciamo e intendiamo la politica. A sinistra, e non solo. Mi ha sorpreso come in contesti diversi mi sia capitato di ascoltare parole simili sui meccanismi culturali, sociali e psicologici che formano l’identità di ognuno e il reciproco riconoscersi in un mondo comune. E di conseguenza in una azione, una pratica, un progetto politico.
A Roma si sono ritrovate con Livia Turco molte delle donne che negli anni ’80, quando il Pci orfano di Berlinguer cercava nuove strade, e prima dell’89 e della “svolta”, avevano dato vita alla “Carta itinerante” delle donne comuniste, tentando l’innesto in quel partito del pensiero femminista della differenza, considerato, almeno da alcune delle promotrici, l’unico capace di sostenere un movimento basato sulla forza sociale femminile, e non su rivendicazionismi più o meno vittimistici. Giacchè solo un percorso di riconoscimento personale compiuto a partire da sè può rendere vera questa forza, e quindi farla vivere come una potente leva politica anche collettiva. “Dalle donne la forza delle donne” era infatti lo slogan principale della “Carta”.
Sarà interessante discutere – se questo imprevisto desiderio collettivo di rimuovere una rimozione andrà avanti – sul perchè quella esperienza non sia sopravvissuta e sia stata di fatto dimenticata, cancellata, almeno fino a oggi.
Ma qui voglio solo annotare che l’unico dirigente del Pci maschio che ha parlato in questa occasione – Achille Occhetto – ha concentrato il suo intervento sull’esigenza del tutto attuale, nell’epoca di una crisi verticale dei partiti e di una gestione del potere personalistica, che il contributo intellettuale delle donne e del femminismo torni a essere fondamentale per una declinazione dell'”io”, del sé, completamente differente da quella maschile, che porta al potere strumentale, all’individualismo astratto e condizionato passivamente del neoliberismo, oppure si annega nel “noi” delle identità collettive falsamente universali che stanno “alla base delle tragedie del ‘900”.
Occhetto non si è chiesto che cosa desideriamo e sappiamo fare noi uomini per superare questo “io maschile universale”, nel momento in cui ne riconosciamo il limite, l’insostenibilità, ma ha citato la confusione di chi sembra smarrirsi pirandellianamente nell’uno, nessuno e centomila.
Il giorno dopo, nel corso di un confronto sulla possibile attualità di un Marx che “ritorna” ancora una volta nello scenario della crisi capitalistica globale, ascolto il professor Roberto Finelli che, impugnando la psicologia moderna (ma anche la Fenomenologia dello spirito dI Hegel), denuncia un “deficit teorico radicale” nella visione marxiana che privilegia un “soggetto collettive organico, e che vede all’opposto, l’individualità del singolo come il luogo della regressione privata”. Avrà buon gioco Lia Cigarini – esponente proprio di quel pensiero della differenza da cui siamo partiti – a ricordargli che il femminismo da una quarantina d’anni pensa e agisce con pratiche politiche che sono basate sul “partire da sé”, e che su queste ha basato la decostruzione dell’ordine maschile dominante. Un movimento che non ha nulla dell’individualismo neoliberale, in quanto permeato dalla consapevolezza che ognuno è legato all’altro, agli altri, altre, da una rete relazionale imprescindibile, e che solo su questi vissuti differenti può essere costruita la propria e l’altrui libertà.
Forse é venuto il momento di un linguaggio comune tra uomini e donne, basato su questa necessariamente differente e individuale costituzione del sé. Da parte maschile dovrebbe però cessare la continua “obliterazione” del mutamento – vitale e ideale – aperto dall’altro sesso. O le ferite subite bruciano ancora troppo?