Pubblicato sul manifesto il 6 ottobre 2015 e ripreso anche nel sito di maschileplurale –
Ho partecipato a un incontro tra uomini in cui si sono sperimentate metodologie non solo verbali per comunicare, conoscersi, affrontare problemi anche di natura politica. Ho avuto poche altre esperienze di questo tipo, sempre con qualche prevenzione verso una certa retorica dell’idea che attraverso il corpo e il suo linguaggio si raggiunga una conoscenza sicuramente superiore a quella che si produce negli scambi discorsivi usuali.
Naturalmente ognuna delle parole appena scritte meriterebbe un approfondimento (che cos’è uno scambio, che cos’è un discorso, che cosa è usuale…). Ed è anche vero che, a parte la comunicazione scritta, disincarnata, quando ci si parla in presenza entra in circolo comunque una comunicazione non verbale. Il suono e il tono della voce, lo sguardo e l’espressione del volto, la postura del corpo, certi gesti soprattutto delle mani…
Altra cosa è però immettere espressamente e consapevolmente il corpo, i corpi, in un contesto comunicativo. Mi è rimasto impresso uno degli “esercizi” e “giochi” fatti. Ci si dispone in due file contrapposte, e a turno si avanza verso l’uomo che si ha di fronte, cercando di concentrarsi sulle emozioni interiori e su ciò che si desidera comunicare in questo avvicinamento. Chi attende l’avvicinamento del suo dirimpettaio può fare un passo indietro se la vicinanza raggiunta alla fine sarà avvertita come troppo intensa (nessuno lo ha fatto: tutti sinceri?).
La cosa più difficile – per me ma anche per altri – è stato come dirigere e sostenere lo sguardo. Guardarsi negli occhi per qualche secondo di seguito è un impegno complesso. Spesso lo sguardo fisso è avvertito come una sfida. Oppure si vuole comunicare un’apertura, o si tenta di leggere nello sguardo dell’altro qualcosa di più profondo sul suo essere. Mi è capitato di “confrontarmi” prima con un uomo che conosco da tempo, ma non bene, e poi con uno appena incontrato. La prima prova è stata più complicata: mi sono reso conto che si affacciava il timore di scoprire improvvisamente lati oscuri, soprattutto nel senso di imperscrutabili, in una persona conosciuta superficialmente, con la quale però istintivamente simpatizzo e provo curiosità. Lo sconosciuto mi sembrava aperto, sorridente, e avvicinarlo è stato un primo passo semplice e positivo. Ho anche sentito il bisogno di un contatto fisico al termine dell’avvicinamento, posare una mano sulla spalla, oppure stringere la mano dell’altro. Forse è stato il desiderio di una conferma, di una rassicurazione.
Tra maschi – me lo dice l’esperienza – è abbastanza difficile e inconsueto esprimersi consapevolmente con il corpo, aprendosi a qualche forma di intimità. Pratichiamo tutti, più o meno, la stretta di mano. E in effetti non poca comunicazione passa attraverso questo semplice gesto. Basta pensare a quanto ci irrita (mi irrita) avvertire una mano molle, non reattiva, o al contrario quelle strette di mano vigorose che quasi ti stritolano le ossa. Sembrano segnali del tipo: non voglio (o non posso) avere a che fare per nulla con te.
Mi chiedo se la differenza sessuale passi anche da qui. Molti anni fa sono rimasto affascinato dal modo diverso di parlarsi nelle riunioni femministe. La capacità di esprimersi e di affrontare la politica senza rimuovere nelle stesse parole il proprio corpo e il proprio sé. Un’amica mi ha detto, senza nascondere scetticismo al riguardo, che anche tra donne ci sono e ci sono state esperienze di comunicazione non verbale.
Mi resta il sospetto che per noi uomini questo passaggio sia più importante per migliorare parole e pensieri.