Pubblicato sul manifesto del 15 settembre 2015 –
Sto sperimentando una mia piccola personale mutazione antropologica. Mi sono fatto ricrescere la barba. L’avevo da giovane. È molto simile a quella del coetaneo Jeremy Corbyn. Mentirei se dicessi che la sua vittoria nel Labour non mi ha fatto piacere. Solidarietà generazionale, empatia politica? Perchè no. Basta con le rottamazioni, con la sinistra blairiana che si butta al centro e a destra. Che fa la guerra e amoreggia col capitale finanziario!
Certo, un po’ preoccupa l’idea che si possano risolvere le complesse contraddizioni del presente tornando al dogma della proprietà pubblica dei mezzi di produzione… Ecco riapparire il fantasma di una barba di ben diverso calibro e potenza significante: quella del dottor Karl Marx.
In realtà le cose dette da Corbyn dopo la vittoria (la Repubblica ha riportato un suo articolo sull’Observer) sono piene di propositi ragionevoli per un “nuovo tipo di politica: più educata, più rispettosa, ma anche più coraggiosa “. Difende i diritti dei sindacati e dei lavoratori, è per la pace e il disarmo, per l’accoglienza dei profughi ( i valori della “solidarietà e dell’internazionalismo”). Si rivolge, come i giovani di “Occupy Wall Street”, al 99 per cento della popolazione. E naturalmente è per il 50 per cento di donne nel governo ombra laburista… Siamo quasi al politicamente corretto.
Tuttavia il rischio di un equivoco – ci sono vecchie ricette belle e pronte da riutilizzare per rivitalizzare la sinistra – non lo sottovaluterei.
Giorni fa in una riunione dell’Ars (associazione per il rinnovamento della sinistra) si ricordava come questa realtà fosse nata una ventina d’anni fa a partire dall’assunto che la sinistra novecentesca fosse finita e che bisognasse inventarne un’altra. Ma questa verità è stata semplicemente rimossa dalla sinistra moderata che si è convertita alle ricette liberaleggianti blairiane, così come dalle sinistre cosiddette radicali, che coltivano tutt’ora varie forme di nostalgia.
A questo punto mi limito a suggerire un rimedio secondo me molto efficace per evitare il doppio rischio della nostalgia acritica e della subalternità al pensiero pressoché unico dominante. È la lettura del libro appena uscito di scritti di Simone Weil su Marx e il marxismo – Oppressione e libertà, edito da ORTHOTES (218 pagine, 18 euro) – a cominciare dalla introduzione di Lia Cigarini e Luisa Muraro. Che giustificano la ripresa di testi degli anni ’30 e dei primi ’40 su altri testi ottocenteschi, sulla lotta di classe e gli ideali rivoluzionari, osservando che nessuno dei capitoli aperti dalla storia del ventesimo secolo in realtà si è ancora chiuso.
Il secolo “breve” inaugurato dal massacro della Grande Guerra non è affatto terminato con la caduta del muro di Berlino nell’89. Cause e effetti di guerra e colonialismo, dinamiche del conflitto di classe, mutamenti indotti dalla rivoluzione femminile: sono altrettanti aspetti della storia, della politica, della nostra vita e dei nostri pensieri, parole, sentimenti, che restano non risolti, aperti.
E la lezione di Simone Weil (accostata da Cigarini e Muraro a quella di Gramsci) resta fondamentale. La sua critica ai limiti e agli errori di Marx è spietata. Ma altrettanto grande è l’ammirazione per il suo metodo di studio della società e per la “sete bruciante di giustizia” che egli prova e che trasferisce nella soggettività proletaria. Nella sua opera ci sono “frammenti compatti, inalterabili di verità”. Di cui peraltro il marxismo (soltanto al tempo della Weil?) “non fa alcun uso”. La verità infatti “è troppo pericolosa per essere toccata. È un esplosivo”.