Sono nel Gruppo del mercoledì, quello che riflette sulla cura delle relazioni. Ci incontriamo più o meno ogni dieci giorni. Prevalentemente a casa mia, oppure di Elettra. Verso le otto di sera, dopo discussioni, appassionamenti sballati, un girare a vuoto e l’intuizione che finalmente balugina dai nostri discorsi, arrivano le “fiancheggiatrici” ovvero le relazioni inseparabili di ognuna di noi. Giacché abbiamo parlato o discusso o questionato fino a quel momento, la cena va preparata in anticipo: sugo per la pasta, verdura da ripassare, piatto che “basta scaldare nel forno”? Bisogna escludere l’aglio che sennò Fulvia diventa un vampiro; evitare la carne perché Bia è vegetariana. Quando arrivano gli apprezzamenti, anche la riunione acquista un sapore più buono.
Ho pensato a questo legame tra cibo e politica ascoltando alla Cascina Triulza, appiccicata al Padiglione Corea dell’Expo, la presentazione di “Fuochi. La cucina di Estìa” della Libreria delle donne di Milano, con Liliana Rampello, Sabina Ciuffini, Rosaria Guacci e alcune tra le autrici che si firmano “Cuoche Varie”.
Ma intanto, chi è Estìa? La dea del focolare. A lei si deve l’arte del costruire. Protegge i poveri e i mendicanti. Non prende parte alle guerre degli uomini e degli dei. Le piace viaggiare e fermarsi nelle città greche dove viene bene accolta. Tanto da aver lasciato a Dioniso il suo posto alla mensa degli dei.
Le “cuoche varie” che compongono il gruppo di Estìa sono Ida Farè, Stefania Giannotti, Annamaria Rigoni, Clelia Pallotta, Rossella Bertolazzi, Ottavia Colabella. Varie nei mestieri: architetta, esperta in comunicazione, precaria, docente al Politecnico, formatrice, giornalista. Varie nel carattere: una lunatica, l’altra bizzarra; l’altra ancora dispotica, prepotente, mite, taciturna. Però tutte “legate da un piacere, un vizio, una passione, una mania, una fissazione comune: cucinare” scrive Liliana Rampello che di questa varietà femminile ha incrociato i fili seguendone il tragitto.
Un tragitto altalenante tra il fare e il donare dove bisognava tracciare “una circolarità tra l’alto e il basso, tra il mangiare, il pensare, il discutere”. Diciamo così: bisognava mettere in parola la memoria attraverso una vera e propria strategia narrativa dei ricordi, dei lutti che ti assalgono all’improvviso, delle esperienze, delle conoscenze accumulate da sei donne. Che sono personaggi e sono protagoniste, capaci di comporre una storia comune, quella di un luogo del femminismo dove è cambiata la vita di tante. A partire dalla sua fondazione, nel 1975.
La vita di tante è cambiata anche per via della cucina. Ora, a via Calvi 29, è spaziosa, con il tavolo d’acciaio al centro e fuori, nel cortile, persino un glicine. Una radio e un apparecchio permette alle “cuoche varie” di ascoltare gli incontri che si svolgono in sala. Verso le sette una di loro, il viso arrossato dal fuoco dei fornelli, con il grembiule, si presenta in sala e scandisce: gnocchi di semolino alla romana, gnocchetti di ricotta e spinaci, involtini di carne alla palermitana, insalata di finocchi e arance, Tarte Tatin. Chi si ferma? Alzi la mano. Prosegue il dibattito. Poi ci sarà la cena. Dalle parti del Circolo della Rosa-Libreria delle donne, la cucina custodisce i corpi e i pensieri, il gusto e l’intelligenza domestica, il necessario e l’amore materno. Operazione non semplice dal momento che “la cura in cucina si gioca tra competenza e affanno, curiosità e sicurezza, e soprattutto nell’incontro con l’imprevisto. Ma c’è un ultimo fattore, raccomandato dalla dea, che forse è il più importante, ed è la misura. La misura è una lotta tra il troppo e il troppo poco, che in cucina si esprime con il misterioso q.b.” osserva Ida Farè.
Peraltro, se ci pensate bene, la cucina è nemica di qualsiasi ipotesi colorata di manicheismo: deve agglomerare, fondere, mescolare. Impedire che un sapore prevalga sull’altro ma imporre che ogni sapore (e odore, profumo) abbia la sua ragion d’essere.
Prima dunque della cena, a turno oppure insieme “cuoche varie” sminuzzano, tagliano, impastano, friggono, montano le uova (con il frullino elettrico, con la frusta che batte a mano). Escogitano ma si piegano al ripetitivo e al quotidiano. Sovente si arrangiano perché “si cucina con quel che c’è” dice Annamaria Rigoni e racconta che oggi non esisterebbe “se i miei antenati, poveri montanari, non avessero potuto allevare mucche, pecore, capre, galline, che si nutrivano di ciò che c’era nei prati e davano loro carne, latte, uova. Erano anche un po’ coltivatori, seminavano l’unico cereale che a malapena giungeva a maturazione, il “formenton” (o grano saraceno), e un po’ di verdure nell’orto, ma non sarebbe certo stato sufficiente per consentire loro di vivere. Anche per la loro capacità di resistere in un ambiente ostile, ho scelto di mangiare “quel che c’è”, che la vita vegetariana è vita di pianura, dove il grano e le verdure crescono in abbondanza”.
Il gruppo di Estìa pesca dalle tradizioni, dai gesti che contengono un antico ordine del mondo. Quest’ordine non deve sparire. Assieme all’invenzione di un mondo nuovo che il libro ci consegna, con le ricette e un glossario finale. D’altronde, il cibo è un linguaggio. Annota Stefania Giannotti che “il cibo è percorso facile e abbreviato, per favorire la comunicazione. E’ un piacere da donare e condividere, per di più un piacere del corpo, quindi forte,ma anche praticabile e spendibile con leggerezza. Non ci sono altri modi per scambiare il piacere del corpo oltre al sesso, assai più problematico. In questo senso è oltre e di più del mero nutrimento e se ne va lontano dal ruolo e dall’accudimento. Entra nella gratuità della relazione”.
Provate a friggere le olive ascolane e vedete se continuate a versare lacrime sul fidanzato che vi ha lasciate. “Il fritto chiede concentrazione e leggerezza, il suo tempo e il tempo di farlo arrivare caldo a chi lo mangerà. Caldo e non tiepido e men che meno freddo. Friggere è una forma primaria del cucinare per me; ad Ascoli Piceno, la città da cui provengo, si frigge quasi tutto” si stupisce Clelia Pallotta che in cucina ci sta “in modo non servile ma servizievole”.
Tutto questo è la “cucina relazionale” del gruppo di Estìa. A dimostrazione che gli scambi simbolici passano anche attraverso il senso che viene attribuito al far da mangiare.