Pubblicato sul manifesto il 30 giugno 2015 –
Prima di tutto due premesse.
Condivido la campagna del manifesto: se potessi rinuncerei al “mio” credito verso la Grecia… E mi auguro che in questi pochi giorni prima del referendum l’Europa si svegli dal sonno della ragione in cui sembra essere precipitata, e sia possibile raggiungere con Atene un accordo.
E poi auguri all’Unità che oggi torna in edicola.
La parola che proverei a commentare, sociale, non è poi distante dall’ordine dei pensieri che girano intorno anche a queste due cose.
L’occasione è stata l’ultimo appuntamento, mercoledì scorso, del ciclo “Un mese di sociale” che ogni anno organizza il Censis. Sotto il titolo Salvare il sociale sono emersi dati e considerazioni su uno dei “fondamentali”, per usare il linguaggio di De Rita, della costituzione reale del paese. Una realtà in parte nota: viviamo anni in cui la spesa pubblica destinata a chi sta male, è povero, o ha comunque bisogno di assistenza, come i bambini piccoli, è drasticamente diminuita (solo negli ultimi due anni qualcosa è stato rimesso sui capitoli del fondo sociale nazionale e su quello per la non autosufficienza).
La sofferenza è aumentata, e le conseguenze sono state l’incremento considerevole delle spese private – per esempio nella sanità, o per le badanti (che si stimano in 700 mila, a una media di 920 euro mensili: quasi un decimo della spesa sanitaria!) – e soprattutto l’impegno ancora maggiore delle famiglie (vuol dire per lo più di figlie, madri e nonne) che si prendono cura di anziani e disabili, dei bambini e di tutti coloro che ne hanno bisogno.
Altro fenomeno rilevante l’aumento del ruolo della cooperazione sociale, del non profit, e del volontariato, che di fatto sostituisce sempre di più l’intervento diretto dello stato, anche se i finanziamenti relativi restano fondamentalmente pubblici. Il tutto però avviene nell’ordinaria e perversa approssimazione italica: enormi differenze tra Nord e Sud, casualità e contraddizioni nelle regole, differenze nella qualità delle prestazioni, fino allo scandalo del “mondo di mezzo” di Carminati e Buzzi.
Aldo Bonomi ha centrato il rischio: che la “comunità del rancore”, finora concentrata sull’oggetto straniero immigrato, si diriga, generalizzando, anche contro tutta la realtà del volontariato, del terzo settore, delle onlus, che finora hanno goduto invece di un’alta fiducia da parte dei cittadini sulla loro onestà e efficienza (nell’indagine 2015 del Censis sono seconde solo alle forze dell’ordine, e ben prima delle istituzioni pubbliche e delle imprese private che vincono appalti, all’ultimo posto).
Sarebbe un colpo a una parte importante – per usare ancora la nomenclatura di Bonomi – di quelle “comunità di cura”, con le famiglie, gli insegnanti, le tante figure di operatori che fanno inclusione, che sono la risorsa più importante dell’Italia ferita da una crisi che continua a mordere. Alle quali dovrebbe aggiungersi un sindacato che fosse più preoccupato di reinventare le proprie capacità di rappresentanza e di mutualismo, che degli attacchi di Renzi.
Dal sociale – è stato detto da Carlo Borgomeo, della fondazione Con il Sud – bisognerebbe ripartire anche per invertire il declino del Mezzogiorno. Ma questo mutamento di paradigma – invocato dal Censis sin dalla sua fondazione – non si verifica ancora. Forse – ha concluso autocriticamente De Rita – anche “noi abbiamo troppo privilegiato l’economico e l’intervento pubblico”.
Forse ci vorrebbe anche una “narrazione” pubblica meno superficiale e ottusa della realtà italiana. Chissà se, e come, la nuova-nuova Unità si porrà il problema.