Come sempre Nanni Moretti divide. Il che non sempre costituisce un brutto segno. Ma oggi rispecchia, vivacemente, questa brutta Italia che stiamo vivendo: uno specchio rotto in cui nessuno riesce più’ a riflettersi con gli automatismi che testimoniano l’appartenenza a una comunità. Non siamo più’ di fronte, vorrei dirlo sussurrando se ciò’ fosse possibile, allo storico fazioso particolarismo testimoniato dai classici della nostra tradizione. La cura della vita, quello stile, cosi’ italiano e cosi’ invidiato, di occuparci (magari nel conflitto e nel litigio) di chi ci è’ prossimo dal pianerottolo in su’, e’ arrivato mi sembra al capolinea. Di questo parla il film di Moretti. L’unico regista italiano toccato dal femminismo parte ancora una volta da se’, e come sempre coglie alcuni dei fili che collegano il suo io scopertamente narciso con le realtà’ di riferimento: dal liceo bene al set di un cinema che del “sociale” (sua pretesa specialità’) non capisce più’ niente. È’ stata la sincerità’ di questo smarrimento a toccarmi profondamente. La madre? Una grande attrice (Giulia Lazzarini) che ho continuato per tutto il tempo a rivedere come Ariel in una indimenticabile Tempesta diretta da Strehler nella preistoria. Ma questo è’ il cinema. Chiaramente non roba per vecchi/e zitelli/e inaciditi/e da cattive frequentazioni.
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