MIA MADRE – film di Nanni Moretti –
Con tutto il battage pubblicitario, le interviste nei settimanali, le recensioni nei quotidiani e la partecipazione di Moretti nell’immancabile studio televisivo di Fazio, era prevedibile che il film di Moretti potesse deludere. La storia, per chi ancora non lo sapesse, è di due fratelli (Nanni Moretti e Margherita Buy) che vivono la fase terminale della malattia della madre con reazioni leggermente diverse. Lui è un ingegnere alle dipendenze di un’azienda e lascia il lavoro; prima si mette solo in aspettativa per qualche mese per accudire meglio la madre – poi si licenzia definitivamente. Lei invece nel film che sta girando da regista, si occupa di chi il lavoro lo ha perso in una fabbrica comprata da un imprenditore americano (John Turturro). È come se Nanni Moretti si fosse divertito a invertire i tradizionali ruoli maschio-femmina: da sempre sono le donne che si prendono “cura” delle madri anziane e delle vicende di famiglia in genere rinunciando spesso anche al lavoro remunerato fuori casa, mentre sono gli uomini a portare avanti il lavoro come “realizzazione di sé”.
Le due parti della storia – quella pubblica e quella privata – si alternano con un montaggio non del tutto armonico conferendo al film un tono un pò frammentario, come talvolta succede nelle pellicole di Moretti. Si apprezza il film prevalentemente per la grande bravura di Giulia Lazzarini e per l’esuberante simpatia di John Turturro mentre i fratelli Margherita e Giovanni non riescono a convincere. Margherita (nel film come nella vita) Buy non è mai stata la mia attrice preferita: mi sembra che quell’aria un po’ stonata – “inadeguata” dice Moretti – l’abbia sempre in quasi tutti i suoi ultimi film. Sempre sciatta, dimessa, mal pettinata e vestita è rigida – direi meglio impalata – e se avesse dovuto esprimere il disagio, in effetti, lo ha ben comunicato.
Ho la sensazione che, a parte il racconto toccante dell’accompagnamento della madre alla morte dopo una lunga malattia – evento che moltissimi spettatori in qualche modo hanno vissuto – Moretti abbia messo insieme qualche piccola riflessione sul cinema neanche tanto originale e che le sue citazioni qua e là siano piuttosto degli ammiccamenti. Che dire della scelta della canzone di Leonard Cohen (ricordate I compari di Robert Altman del 1971?) come colonna sonora nella osannata scena della fila al cinema Capranichetta dove proiettano Il Cielo sopra Berlino (Wim Wenders 1987)? E la trovata di lei che vede e ascolta una se stessa giovane nella fila non ricorda un’idea simile di Woody Allen in Annie Hall del 1977? E ancora dello stesso regista una Mia Farrow che entra ed esce dallo schermo nella Rosa purpurea del Cairo del 1985 non è forse evocata da John Turturro che urla “sono stufo del cinema, voglio rientrare nella realtà…”?
Quello che però distanzia Moretti dai grandi che ama citare è la poca cultura visiva che ha. Le sue scene sono estremamente scarne. Non saprei neanche dire se è un difetto o un pregio: sicuramente è una sua prerogativa. In un mondo dove vige la spettacolarizzazione – del dolore, della violenza, delle architetture ridondanti – Nanni Moretti si pone controcorrente politicamente e poeticamente. La matrice neo-realista italiana, a mio avviso, è prevalente così come la messa in scena di una certa media borghesia romana con i suoi luoghi urbani poco spettacolari (quartieri di Monteverde e del Flaminio) ma che bene la rappresentano.