Pubblicato sul manifesto il 10 marzo 2015 –
Non è da ora che numerose parole-chiave culturalmente e mediaticamente fortunate ci avvertono di qualcosa di inquietante: viviamo un tempo che sembra incapace di definirsi per il suo presente (o anche per il suo desiderio di futuro), e che si rassegna quindi a identificarsi con espressioni un po’ vuote, il cui senso immediato è quello di annunciare soltanto che un tempo precedente è finito.
E’ la celebre condizione “post-moderna” descritta alla fine degli anni ’70 da Lyotard, riempita via via da un modo di lavorare divenuto “post-fordista”, da una cultura critica “post-marxista” e “post-strutturalista”, e via declinando questo sentirsi immersi in qualcosa di cui l’unica cosa certa è che non è più quello che era una volta. Le scarse definizioni al presente non sono poi per nulla rassicuranti: viviamo in un mondo “liquido”, in una “società del rischio”, strutturata in “non luoghi”.
Anche le antiche certezze patriarcali sono venute meno. Ne scriveva il giovane Lacan già negli anni ’30, e un testo del femminismo italiano del 1996 (Sottosopra rosso. E’ accaduto non per caso) ha dichiarato la “fine” del patriarcato, giacchè al predominio maschile è venuto meno il credito femminile.
Che cosa ne è seguito? La discussione è aperta. Una delle ipotesi – viviamo nel tempo del “Post-patriarcato”, nell’”agonia di un ordine simbolico” non ancora conclusa – è avanzata da un breve ma intenso libro (edito da Aracne) di una giovane studiosa femminista, Irene Strazzeri. Va subito detto che l’autrice, pur non escludendo che da una fase percorsa da “sintomi” allarmanti e da “sfide” difficili possa anche riemergere una forma di “neopatriarcato”, si dimostra fiduciosa che alla fine possa nascere un tempo capace di essere vissuto in modo positivo. E lo annuncia in esergo come solo una donna può fare, dedicando il testo “al bimbo che aspetto, e al mondo che gli auguro”.
Il libro – come aiuta a capire l’introduzione di Elettra Deiana – è utile anche per incrociare le elaborazioni di un giovane neofemminismo che sta aprendo vari terreni di ricerca mettendo le elaborazioni del femminismo storico (italiano e occidentale, ma anche post-coloniale) a confronto con la lettura dell’attuale crisi globale e del dominio della “ragione” neoliberista. Una fase nella quale il capitalismo sembra in grado di sussumere ogni istanza critica alternativa. Per esempio riconoscendo il “valore” della differenza femminile ma finalizzandola all’efficienza della produzione e della competitività dell’economia data. Oppure amplificando lo scandalo della violenza maschile contro le donne, ma traducendolo in politiche di contrasto e in paradigmi capaci di costringere nuovamente le donne nel ruolo di vittime bisognose di “protezione”.
La via di uscita indicata da Irene Strazzeri è quella di una rilettura del concetto e della pratica dell’”autorità femminile” così come è stata indicata soprattutto nei recenti testi di Luisa Muraro ( Autorità, Rosembreg & Sellier) e di Annarosa Buttarelli ( Sovrane, Il Saggiatore). Un’idea di autorità diversa e distinta da quella di potere che connota la politica maschile. Autorità come frutto della relazione e dello scambio linguistico. Come figura circolante indispensabile all’agire politico, che può superare gli stessi limiti della democrazia della rappresentanza. Strazzeri propone di considerare intrinseca alla produzione di autorità anche la dinamica del riconoscimento. Un dispositivo che può accomunare donne e uomini, senza il bisogno di nuove tradizioni e religioni, per liberarsi da quell’agonia in un presente finalmente capace di riconoscere se stesso.