Martedì 13 gennaio sul manifesto era pubblicata una vignetta di Pat Carra. Una donna stava scrivendo e aveva già scartato diversi foglietti. Sopra di lei un cartello con la scritta “Libertà d’espressione in Occidente” e sotto la frase da lei scelta: “Posso dire che non sono Charlie?”. (Ho poi visto che altri si sono distinti in modo simile, e tra loro Eugenio Scalfari, domenica 18 su Repubblica.)
Ma la vignetta di Pat mi ha dato ossigeno. Ha aperto le porte ai miei dubbi e mi sono sentita libera di inseguire i miei pensieri.
Libera: dalla satira, dall’orrore, dalla religione, dalla guerra evocata mondialmente, da quella libertà che non sapevo bene cosa voleva dire per me. Libera da un paesaggio a cui mi sento estranea e in cui comunque vivo. Mi creava un peso, un disagio, la richiesta di appartenenza e scelta: tra l’orrore appena accaduto a Parigi e una specie di obbligo a chiamarmi Charlie. E lo sentiva anche Pat Carra.
Certo con una vignetta è più facile, questa è la capacità della satira: la sintesi. Con un pensiero parlato o scritto è più complicato. Ma lei mi aveva autorizzato a indagare quel disagio.
Una vignettista femminista, e forse che sia femminista non è un caso, una settimana dopo osava rompere pericolosamente l’incantesimo della satira.
Ho cominciato a chiedermi, grazie alla libertà un po’ diversa da quella di Charlie che mi aveva dato Pat, cosa avevo da condividere con l’idea di libertà in cui siamo immersi qui, fino alla “libertà totale” che Giulio Giorello ha così bene sintetizzato sui fatti di Parigi scrivendone sul Messaggero.
Ho una qualche relazione come donna con quell’idea di libertà ” totale”?
Così ho cominciato a scrivere queste righe perché quel totale non lo digerisco. Mi pare stia come preambolo alla guerra chiedendoti di scegliere tra il bene e il male immediato. Cancellando il resto della storia. (Ho ascoltato anche il mite Augias, a Radio 3, parlare come molti altri di “guerra”).
Non voglio neppure provare a indagare (non lo saprei fare?) il resto della storia del mondo in quella direzione, né quel bene e quel male (Rossana Rossanda ne ha già fatto il quadro e anche Luisa Muraro), né la libertà totale di Giorello.
Quello che mi sto chiedendo invece è come entro io in quanto donna e ci entrano le altre in questa libertà totale? Dove nasce il mio disagio? E mi chiedo ancora se ci sto dentro io a questa idea di libertà e se ne sono mai stata compresa, se ne ho una qualche responsabilità diretta e se posso considerarla anche mia perché in qualche modo anche noi donne nel tempo abbiamo contribuito a costruirla?
Eh sì, so perfettamente che pensandomi come donna e uscendo dal neutro – che mi obbliga invece a pensarla come vogliono quasi tutti gli uomini di un qualsiasi potere – non sto dentro quell’idea di libertà squadernata da Giorello, né dentro l’idea che la religione “sia – sì affettuosamente, ma basta così – mia madre” e che per lei devo menare “cazzotti”, come dice Francesco.
So benissimo chi è mia madre e che non ho quella madre putativa, magari forse altre in carne e ossa, persino religiose. E so benissimo che non mi posso delegare in quel modo ( a cazzotti ) a niente altro oltre a me e alla cura della vita che ho invece appreso da mia madre e dalle madri, anche se così Francesco a suo modo le onora. Non credo si debba fare a cazzotti in nome della madre, per onorarla. Penso debba esistere un altro modo di rispettare le madri per gli uomini, anche se lo dice un uomo che mi sembra buono.
E poi mi chiedo ancora: quell’idea di libertà mi ha mai davvero guardata in faccia? Mi ha mai detto che come donna avevo la metà del suo spazio, qui in Italia e in Occidente?
Le donne se la sono sempre conquistata la loro libertà e non è detto che parliamo dello stesso concetto di libertà di cui parlano moltissimi uomini. Anzi credo proprio che la loro idea di libertà sia diversa dalla nostra, se guardo il suo cammino nel mondo.
Il femminismo se ne è andato nel ’68 da quell’idea di libertà per capire la sua.
E grazie alla ricerca femminista ho imparato che le donne del mondo ne sono estranee. Persino quelle che gestiscono oggi la democrazia degli uomini, in nome e per conto degli uomini?
E così so che questa idea di essere Charlie, per cui io devo ingrandire il desiderio di guerra fratricida, non è mia, non mi appartiene, non possono impormela togliendomi la mia: anche se non so ancora bene quale sia la mia. So di certo che non è quella, me lo ha detto il mio disagio e la vignetta di Pat.
E so anche che è dall’inizio della democrazia, nata per questo, che si tentano mediazioni alle guerre tra fratelli con risultati ancora molto incerti, dopo più di duemilacinquecento anni.
Basta leggere “Sovrane” (2013) di Annarosa Buttarelli per avere una buona sintesi della nascita della democrazia e del suo difetto d’origine: l’assenza del pensiero femminile. Se c’era bisogno di una dimostrazione della nostra assenza da questa democrazia e dall’idea di libertà totale che ha generato, i fatti di Parigi ce l’hanno squadernata davanti. Un cul de sac monosessuato da cui non si sa come uscire se non usando ancora la forza, magari in terre e cieli lontani mentre qui invece la democrazia viene addomesticata, dopo due guerre mondiali.
Riporto dalla lettura di Sovrane l’idea molto gradevole che la mia libertà e quella delle donne sta proprio nel capire e nell’usare la nostra estraneità alla nascita della democrazia come spazio d’azione della nostra e forse altrui libertà. E mi pare persino di trovare un posto in cui metterla, seguendo le sue storiche autorevoli donne che per rimanere fedeli a sé stesse e trovare la loro originale strada alla libertà si sono messe “al di fuori e al di sopra della legge” nella gestione maschile del potere.
Da donna anch’io voglio darmi lo spazio, nel mio piccolo, per stare fuori da queste logiche di libertà monosessuata e so che gli uomini non hanno ricevuto nessun mandato dalle donne per continuare ad agire la loro strana libertà democratica, non ancora liberata dal dare la morte e forse ancora molto lontana da una idea di democrazia nata da uomini e donne, in relazione.