Elettra Deiana dice che “L’atto di cura non è MAI (maiuscolo mio) neutro” e Letizia Paolozzi titola un articolo “Il SENSO (maiuscolo mio) delle donne per la cura”. A me sembra che il titolo di Letizia dia risposta al “mai” di Elettra, modificando il suo neutro in femminile. Una lo sottintende, l’altra lo dice. Una quadratura del cerchio?! Certo un passo in più nella recente metamorfosi che una parte del femminismo italiano sta portando avanti sul valore della parola Cura.
Si afferma dunque, nei due diversi articoli, che la cura è atto femminile. Chiunque lo faccia, pare dicano in sintonia, nasce comunque dal sapere riconosciuto alle e delle donne. Certo non lo dice ognuna di loro, ma insieme ti portano lì.
E quello stare lì, in quel luogo per me è buona cosa. Sento dentro che è vero, perché l’ho visto in me e nelle donne che mi stanno intorno e questo mi spinge a fare una domanda che ho da tempo in fondo al cuore e che sento quasi sottintesa nei due articoli: ma perché è femminile?
Solo perché lo fanno e lo sanno fare quasi tutte le donne del mondo o perché nelle donne c’è anche qualcosa che lo rende quasi automatico? Senza che l’automatismo sia necessariamente un male. Dove o da cosa nasce questa quasi generale sapienza femminile per la cura, che non è ovviamente “manutenzione” non essendo noi macchine, e perché?
Al di là di quello che ne pensano gli uomini, che in questa nostra ricerca non c’entrano più di tanto, dove collochiamo noi donne la sua nascita in noi, come nasce in noi quel “resto” non neutro con cui si è definita la qualità speciale della cura: per caso, se scartiamo l’imposizione?
E perché questo senso della cura di cui parliamo per le donne non si può attribuire agli uomini e ad un quasi automatismo maschile?
Non credo si possa pensare, nell’analisi che stiamo portando avanti, che sia una domanda superflua, già fatta e bocciata, inutile da riproporre. Anzi penso che dalla risposta che ci daremo dipendano le scelte che poi porteremo avanti nella politica femminista.
Non mi è mai bastata l’affermazione che la cura la possono fare tutti: uomini e donne e che sia solo un fatto culturale imposto. Mi fa sentire insipiente, stupida, inutile e soprattutto incapace e non penso proprio di esserlo più degli uomini.
Ma come, quello che faccio lo faccio solo perché imposto? E lo faccio comunque quando potrebbero farlo tutti?
Troppi nostri atteggiamenti femminili uguali da sempre nel mondo non mi tornano. A meno che non pensi le donne un po’ come le pensano gli uomini in genere. Ma non mi va proprio di portare acqua ad un mulino che non macina farina buona per vivere, io voglio anche vivere bene dentro al mio mondo e non credo che se penso ad una predisposizione femminile alla cura mi sia preclusa la possibilità di stare nel mondo secondo un desiderio di agio e sapienza per tutti!
Anzi penso che una rivalutazione del luogo di nascita della cura sia l’unica possibilità sensata che possiamo dare al mondo per cambiarlo in meglio. L’ unica altra possibilità che abbiamo per esistere in modo diverso nel provare ad uscire dal marasma in cui siamo immersi.
Un marasma che tende ad avere la cura come modello di facciata, ma strutturato da regole e regoline molto maschili utili solo a chi le crea. Per sottintendere sempre e solo la cura (o il vizio) del più forte, non quella della vita umana come invece si vuole far credere. Nascondono così l’incuria: l’incapacità della cura.
Comunque la risposta, un po’ irritante per molto femminismo, che trovo alla mia domanda è una sola: le donne sanno “produrre” la vita (non ri – produrre, non facciamo bulloni tutti uguali), dentro e fuori dal loro corpo e proprio per questo vogliono curarla.
Visto che non ci sono altri a farlo con lo stesso naturale modo “trasformativo” con cui lo facciamo. E non mi spaventa la parola naturale, come molte altre che dovremmo rivedere per evitare la fatica di inventarne di nuove, se la rileggo al femminile. E’ la possibilità speciale che abbiamo della e dalla Maternità!
Quando produciamo la vita scatta in noi un meccanismo sapiente – da aiutare per farlo esistere bene – che non scatta uguale o non scatta proprio per niente nel corpo di molti uomini alla nascita di una nuova vita. Quasi tutti loro, ad esempio, nel ‘900 hanno passato il tempo a perfezionare la vita al lavoro, non il lavoro per vivere.
E’ questo produrre la vita che ci rende diverse e dà valore a quel “resto” importantissimo per tutti che chiamiamo cura.
Non so trovare altre risposte che abbiano la stessa potenza per definire il nostro senso della cura e il suo non essere neutra. Certo non possiamo fare confusione tra desiderio e imposizione della maternità, tra sessualità e maternità, tra piacere e amore, soprattutto dopo la libertà del femminismo e della contraccezione. Ma non possiamo per questo cancellare il dato oggettivo dei nostri corpi di donna. Un’oggettività che è in grado di renderla “paradigma” per la cura della vita in convivenza. E che proprio per questo può e si deve dare l’autorità che le serve per ostacolare quell’altra protezione maschile della vita a cui si accede solo con l’uso della forza, intesa come fisica, fino a riuscire a darsi il potere di poter dare la morte, vera o simbolica che sia.
Nel suo articolo Letizia dice che se ci interessa la parola “cura” dobbiamo osare di più. Credo di aver preso la palla al balzo, compreso il suggerimento conclusivo di un articolo di Maria Luisa Boccia in cui ci invita a fare legame, per ripartire tra donne, praticando il conflitto anche tra di noi.
D’ altra parte la giovane femminista Gaia Leiss sostiene che non sente alcuna necessità di rifiutare il lavoro di cura o il lavoro domestico (e lo chiama proprio lavoro): al contrario -afferma- è il lavoro per il mercato che più spesso mi fa sentire schiava…
La sua affermazione racconta molto di un cambio di passo nella coscienza di sé delle donne e non possiamo far finta di non avere letto, anche per L’Agorà del lavoro. Come racconta di un disagio profondo: “SCHIAVA” dice, che forse non è più solamente femminile, ma abbastanza comune anche agli uomini nel lavoro, ma non solo.
Così come non possiamo far finta che quel mondo del lavoro in cui siamo entrate sia ancora quello degli inizi del femminismo, quando si pensava anche a sinistra e molto patriarcalmente che bastasse far un po’ di posto alle donne, che spesso si sono e si lasciano convincere, perché tutto potesse restare fermo e immobile come era stato da loro pensato. Non è andata così! Non sono riusciti a salvare molto neppure per loro nella guerra per i primati maschili e hanno perso, almeno fino ad ora, l’occasione di usare la leva dell’ inserimento del femminile nello spazio pubblico come occasione di cambiamento radicale.
Ripensare da donne l’origine del nostro fare cura può essere la nostra nuova frontiera di libertà, per non sentirci “schiave” fuori di casa e può essere anche quella degli uomini: per uscire dallo schiavismo della forza, dentro e fuori casa.
Gli articoli di Elettra Deiana, Maria Luisa Boccia e Gaia Leiss sono su Leggendaria 107, quello di Letizia Paolozzi sul sito Dea Donne e altri.