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Cambiare tutto perché tutto cambi

18 Dicembre 2014
di Letizia Paolozzi

06_percorsoFemminismo e politica. Avrebbero potuto (e dovuto) convolare a giuste nozze, tuttavia la promessa di matrimonio è stata tradita. Non sappiamo per colpa di chi. I sospetti si appuntano sulla sordità della componente maschile della politica.

Dopodiché, se alla politica aggiungiamo la parola sinistra, il “doppio vincolo” odio-amore pare essersi ancora più intorcinato. La situazione peggiora, se specifichiamo di riferirci ai partiti della sinistra. Dipende dalla crisi, certo. Con la pervasività della finanziarizzazione; l’irrigidimento della democrazia; la rappresentanza (scusate il bisticcio) sempre meno rappresentativa della società reale. Ben magra consolazione che pure il capitalismo, con la crisi, non si senta tanto bene.

Come che sia, se uno ai nostri giorni si propone di interpretare il mondo e trasformarlo, lo guardano quasi fosse un ninnolo nel décor del salotto di Nonna Speranza. Certo, il femminismo, i femminismi continuano a produrre pensiero, gesti, parole; ma basta per operare una trasformazione della realtà?

Piuttosto, in epoca post-ideologica, è consegnata alla “videosfera” (Regis Debray). Noi l’osserviamo, sedute in poltrona, telecomando alla mano.

Non ha bene né eroi buoni Romanzo criminale e ora Gomorra – La serie. Nei vicoli umidi, lungo le scale scrostate, tra le poltrone finto Settecento del boss Savastano, uomini e donne al male gli danno del tu. Con una differenza: “’e femmine” non vincono mai attraverso la forza. Loro sanno aspettare. “In questo sono maestre” spiega Donna Imma (la moglie del boss). Peccato che l’attesa non le giovi e finisca stesa sull’asfalto.

Siamo sinceri. Non si tratta soltanto della descrizione di un’Italia rimasta senza fiato della quale la politica non si prende cura. Al di là degli abiti: giubbotto di pelle e leggins leopardati oppure decolleté nero e doppiopetto grigio, il bene non inspira neppure le fiction americane.

Poliziotti irlandesi alcolisti, neri disperati, donne perfide, giornaliste all’arrembaggio, lobbisti corrotti popolano House of Cards. Andando all’indietro, stessa musica per The Wire o Boardwalk Empire. Nessuna regola etica. Cinismo, amoralità per raggiungere un unico obiettivo: il potere.  In effetti “Io prego sempre per me stesso, solo per me stesso” conferma il politico Frank Underwood interpretando la Casa Bianca e dintorni.

Secondo voi, queste mises en scène le ha partorite la vertiginosa immaginazione degli sceneggiatori oppure affondano le radici nel nostro mondo? Se è così, dovremmo cambiare rotta. Inventarci “una nuova pratica politica” (Julia Kristeva Stranieri a noi stessi. L’Europa, l’altro, l’identità, riedito con una nuova introduzione, 2014, Donzelli), capace di non perdere l’orizzonte, ma con i piedi piantati per terra.

Una pratica simile l’ho rintracciata nel linguaggio di Antonella Leardi, in quella sorta di orazione funebre pronunciata per il figlio, Ciro Esposito, il ragazzo di Scampia morto dopo 52 giorni di sofferenza.

La politica però non conosce quel linguaggio che echeggia fatica e fierezza, senso della vita e compassione. Una volta era diverso. Quando i partiti cavalcavano idee, regolavano conflitti, producevano relazioni. Adesso, in ciò che resta dopo lo sfarinamento dei partiti, i nuovi leader consultano manager della comunicazione per elaborare strategie di successo. Oppure si rinserrano in pratiche politiche sclerotizzate. O suppongono che la costruzione di “una nuova soggettività della sinistra” possa  prescindere dalla cura delle relazioni. L’ha dimostrato l’assurda batracomiomachia sui nomi degli eletti a Bruxelles dell’Altra Europa per Tsipras e i discorsi che circolano sull’ennesimo tentativo di inventare un altro soggetto a sinistra, sempre e comunque “a sesso unico” (osservazione di Lea Melandri a proposito di un lungo articolo di Piero Bevilacqua sul manifesto).

Comunque, per tornare al nostro tema, il primo tentativo di stringere un patto tra femminismo esinistra, corredato di testi, discussioni, contradditori (pubblicati su l’Unità e sulmanifesto), si verifica nel Pci.

La battaglia per l’aborto, il divorzio, il nuovo diritto di famiglia sono la registrazione del salto intervenuto quando le madri smettono di tacere; le mogli di orbitare intorno al pianeta-marito; le figlie di odiare le madri. Il conflitto tra i sessi è aperto. Cresce il numero delle separazioni. Molte donne scelgono di restare da sole. Con i figli. Rifiutano i ruoli imposti, ma anche gli stereotipi dell’emancipazionismo. Hanno letto “Speculum” di Luce Irigaray (1974); maneggiano l’autocoscienza, il partire da sé, i piccoli gruppi e la pratica dell’inconscio. Hanno un orizzonte comune. Però questo non significa essere un gregge; avere un pensiero unico.

Il sesso femminile vuole uscire da una condizione di minorità. “Ribellarsi (ai maschi) è giusto”. Nei gruppi extraparlamentari e nel Pci. Una risata sta per seppellire palchi faraonici, minacciose presidenze, complicati organigrammi.

Eresia tra le eresie, alla VII Conferenza delle donne comuniste (1984) viene fischiato il responsabile all’Organizzazione. D’altronde, nel Partito o nel movimento, che si affidino al centralismo democratico o tirino “bocce”, i leader sempre e comunque appartengono al sesso “forte”.

Le militanti comuniste evocano “dalle donne la forza delle donne”. Livia Turco, promossa da Alessandro Natta, di formazione cattolica, porta alle feste dell’Unità Luce Irigaray e il pensiero della differenza. Nel frattempo, le polveri avvelenate di Chernobyl (1986) e il concetto di limite hanno prodotto un inatteso avvicinamento con il femminismo.

Viene presentata la Carta delle donne (1987). Incipit del testo: “Siamo donne comuniste. Abbiamo scelto il Pci per realizzare il nostro desiderio di fare politica, perché cambi la nostra condizione e il mondo in cui viviamo”.

Inizio un po’ pomposo per dire che le comuniste intendono stare da donne nel Pci. Segue qualche capriola e molti compromessi tra differenza sessuale e “riequilibrio della rappresentanza”, libertà femminile e giustizia sociale.

Quelle della Carta si reggono insieme finché non arriva il crollo del Muro. La chiusura di un ciclo storico e la fine del Pci non porta una elaborazione del lutto ma scontri, lacrime sul cambiamento di nome del Pci. Per Massimo D’Alema siamo allo “psicodramma”.

La relazione tra donne, il prezioso congegno introdotto (quanto forzatamente?) in un partito politico, va a farsi benedire. L’esperienza della Carta non può reggere di fronte alla divisione tra “Sì” e “No”.

Con la Quarta mozione, qualcuna prova a sfilarsi dalla tenaglia. Dalla logica che contrappone il volontarismo del “nuovo inizio” al “nobile conservatorismo” di chi teme il trauma dello strappo.

Viene fuori una posizione diversa; una analisi che fa leva sul femminismo (nota: Franca Chiaromonte Letizia Paolozzi Il taglio Datanews 1992).  Badate che questo Partito è andato in crisi perché non ha capito che l’Italia stava trasformandosi. Il conflitto tra capitale e lavoro perdeva peso. I guai del Pci dunque cominciano molto prima della caduta del Muro. Già negli anni Settanta vi siete comportati da gattini ciechi. In fondo, solo il segretario comunista Luigi Longo si era mosso per aprire un dialogo con il movimento del Sessantotto.

Dice la Quarta mozione che “il metodo è sostanza”. Il metodo equivale a mettere le relazioni al centro della politica mentre gli opposti schieramenti impoveriscono il tessuto delle relazioni. Lo abbandonano all’incuria.

Se Don Lorenzo Milani aveva usato “I care” (Mi importa, mi interessa, mi sta a cuore) nella “Lettera a una professoressa” (e Veltroni rilancerà l’esortazione, forse comprimendola troppo in uno slogan di importazione americana), sarà un gruppo di donne, le femministe del Mercoledì, più di quarant’anni dopo, a proporre “la cura del vivere” come idea-forza (il testo, del Gruppo delle femministe del mercoledì, è del 2011. Pubblicato sulla rivista “Leggendaria”, sul sito DeA, www.donnealtri.it).

Al momento della “svolta”, però, la cura (Letizia Paolozzi Prenditi cura 2013 Et al editore) è l’ultimo dei problemi. Altri i sentimenti che guidano e dividono le donne. In alcune prevale l’attaccamento, la dedizione, l’abitudine, il senso di sicurezza che la comunità comunista infonde. D’altronde, quando la città è sotto assedio – e il Pci lo era – mica ci si può permettere il lusso di sparare su chi la difende. In altre, si tratta di liberarsi dalla zavorra, dalle “macerie” che avevano ricoperto una grande storia. Fece scandalo questo termine impugnato da Claudia Mancina.

Il seguito della complicata vicenda richiederebbe un capitolo a parte. Proseguiranno i tentativi di alcune femministe di incontrare la politica attraverso il Partito della Rifondazione comunista e poi di Sel. Luoghi separati di donne, campeggi, vacanze separate, produzione di libri: ancora la doppia militanza? Ancora (e nonostante gli sforzi di comprendere da parte di qualche uomo) il sesso maschile in posizione dominante?

Ma c’è un filo rosso: l’aspirazione a “riequilibrare” la presenza delle donne (che continuavano a essere pochissime) in Parlamento, nelle istituzioni rappresentative, nelle società pubbliche.

Per rimediare all’ingiustizia di una simile deroga al dettato costituzionale, l’associazione Emily in Italia (Annamaria Carloni, Franca Chiaromonte e altre), ispirandosi all’esperienza delle Emily’s list americane e inglesi, si butta a costruire una lista tutta femminile alle elezioni provinciali di Napoli del 2004. Vicenda piccola piccola, che però gira intorno ai nodi del potere, dell’uguaglianza, della parità.

Nodi che non si riesce a sciogliere, benché il salto ci sia stato. In Parlamento, al governo, in Europa. Qualche sindaco e qualche presidente di regione (da Pisapia a Vendola) inaugura la prassi delle giunte 50 e 50.Il sesso femminile o il genere, furoreggia.

Per parte loro, le donne vogliono esserci. E pazienza se rischiano “ un’omologazione strisciante… rispetto a chi ha avuto il controllo esclusivo del potere per secoli” (La 27Ora sul Corriere della Sera del 22 giugno 2014). Pazienza se non gli importa nulla dei “beni simbolici” (Chiara Saraceno L’eredità, 2013, Rosemberg&Sellier) ricevuti dal femminismo.

Intanto, l’opinione pubblica scommette sull’altra metà del cielo. E poi, collocare rappresentanti femminili giovani, graziose ma deteminate, nei posti di responsabilità, costituisce un messaggio semplice, immediato, di sicuro effetto.

Questo messaggio è tra i punti qualificanti nella narrazione odierna di Matteo Renzi. Peraltro, dovrebbe garantirgli, soavemente, la “rottamazione rosa” dei vecchi mandarini, dei burocrati, dei tecnocrati.

Benvenuti dunque i volti nuovi se sono in grado di sbloccare la situazione, di portare il cambiamento. Purché, alla fine dei conti non rispunti la tesi di Tancredi Falconeri: “Cambiare tutto perché nulla cambi”. Ma per un simile obiettivo non c’è che la politica. Una politica che sappia intromettersi nella realtà.

 

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