Pubblicato sul manifesto il 25 novembre 2014 –
Potrà sembrare provocatorio che nella giornata dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne io titoli questa rubrichetta sulla libertà declinata al maschile.
Lo faccio per cercare di evitare due reazioni sbagliate. La prima sarebbe quella di ignorare questa scadenza ormai fatidica, temendone esiti negativamente retorici e persino controproducenti. La seconda sarebbe quella di cavarsela con l’affermazione di una generica solidarietà maschile.
Da molti anni, insieme a altri amici di Maschile plurale, mi capita di partecipare a incontri e manifestazioni organizzate intorno a questa data. Noi stessi promuovemmo – credo per la prima volta in Italia, era il 2009 – una presenza pubblica di uomini in piazza, a Roma, per riconoscere come un problema prima di tutto nostro, una nostra responsabilità, quello della violenza.
Quasi ogni volta ho vissuto in modo contraddittorio queste esperienze. Da un lato c’è il fatto positivo che finalmente esista un ampio dibattito, e che sempre più uomini prendano la parola e si attivino per non allontanare da sé un dramma di cui sono la prima causa.
Dall’altro c’è il pericolo che quanto sopravvive della cultura patriarcale, nelle istituzioni, nella politica e nell’informazione (e in ognuno di noi), agisca manipolando il discorso pubblico: l’accento principale viene messo sull’essere le donne sempre e soprattutto vittime, quindi ricacciate simbolicamente in un ruolo subalterno, e per gli uomini – specialmente quelli che hanno potere – si riapre la vecchia cara strada di presentarsi come “protettori”, coloro che difendono, armi e leggi emergenziali alla mano, le più deboli dai perversi che le insidiano e le aggrediscono.
La storia invece va letta in un altro modo. Lo ricorda un testo diffuso ieri dall’associazione DIRE (Donne in rete contro la violenza): se oggi si parla finalmente e esplicitamente di violenza maschile, è perché “le esperienze e i saperi delle donne, sin dagli anni settanta, hanno consentito la costruzione di percorsi di libertà e di autonomia, mettendo in discussione ruoli tradizionali e definendo la violenza all’interno dei meccanismi di potere e di controllo che esistono nelle relazioni fra uomini e donne. È stato il femminismo a dare risposte concrete a questo fenomeno attraverso la nascita dei centri antiviolenza”. Oggi invece c’è il rischio che interpretazioni di parte delle recenti norme per combattere la violenza maschile paradossalmente sottraggano riconoscimento e sostegni pubblici proprio a queste esperienze nate con la spinta della libertà femminile.
Gli uomini che, come me, avvertono il bisogno di non sottrarsi, dovrebbero partire prima di tutto dal riconoscimento di questa avvenuta libertà femminile. E su questo misurare il desiderio e la ricerca di una propria differente libertà. Che potrà definirsi tale se sarà essa stessa libera da ogni forma di violenza.
Non è una cosa facile. E noi siamo maestri nella ricerca di vie di fuga. Mi ha colpito quanto ha scritto Francesco Piccolo (su La lettura del Corriere di domenica) a proposito del recente libro di Telmo Pievani e Federico Taddia il maschio è inutile (Rizzoli). Di fronte a un “processo negativo” – il vero sesso debole ora siamo noi – “cominciamo a muovere armate di pensieri” e trasformiamo l’inutilità in una festa liberatoria, alla faccia del mondo.
Ma attenzione, ho avuto proprio oggi in regalo questa bella citazione di Musil: “Quei pensieri poi che fanno giganteschi passi sui trampoli toccando la realtà con minuscole suole, destano a maggior ragione il sospetto di illegittimità”.