Pubblicato nella 27a Ora del Corriere della Sera –
La parola “cura” è zeppa di ambiguità. Lo capisco bene. Immagino che dipenda dal suo avere molti significati; dall’evocare tante immagini bagnate di pathos come delle spugne. Per di più “cura” è parola senza valore. Praticata generalmente da appartenenti al sesso femminile, ha pesato poco o nulla nelle società dell’Homo erectus e attualmente, dell’Homo oeconomicus. Mica produce rendita, la “cura”. Dunque, escludiamo che la casalinga, la badante, la baby-sitter possano mai entrare nella classifica dei miliardari “Forbes”. Se la “cura” viene considerata una pianticella cresciuta sul terreno della abnegazione, della costrizione, del sacrificio, è logico che produca moti di fastidio più o meno espliciti. Guardate il filmino che la illustra. Una mamma stringe al seno il figlio; un padre per mano il suo bambino. L’infermiera si china sul malato; l’operaia aziona una leva; l’impiegata controlla una schermata; la barista prepara il caffè al vetro. Tutte si impegnano; prestano attenzione alle faccende che stanno sbrigando. Un grande numero di donne proteso verso un essere piccolo, che deve crescere. Un numero altrettanto grande consacrato al declino, al tramonto dei genitori.
Dal filmino saltano fuori immagini “materne” di calore umano e comportamenti alla Florence Nightingale. Messa così, ci troveremo a mollo nella tenerezza. Forse, però, vale la pena di abbandonare simili immagini. Domandiamoci, piuttosto: perché tante donne continuano a praticare la “cura”? Soltanto perché obbligate? Ne dubito. Comunque, hanno, abbiamo accumulato un immenso sapere a partire da questa esperienza concreta e astratta, materiale e incorporea, che è, appunto, la faccia in ombra del lavoro necessario per vivere. Sapere capace di aprire degli orizzonti sul modo in cui il lavoro è organizzato e gli orari, i tempi, il come e cosa si produce. Aprire gli orizzonti e delle contraddizioni giacché non tutto è pacifico nella “cura”. Una donna, a pensarci, si arrabbia di fronte all’insensatezza della sua vita quotidiana. Questa scoperta (se di scoperta si tratta) spinge a ascoltare bisogni, desideri tuoi e degli altri.
«Chi l’ha detto che le cose stanno così?» Non che praticare “la cura” ci renda migliori. Più buone. Anzi, angeliche. Piuttosto, nella ambivalenza dei suoi messaggi, produce dei risultati: trasforma, modifica. Me e le tessere del mio, del nostro agire. Meglio forse sostituire la parola “cura” con “prendersi cura” che indica una relazione, uno scambio simbolico e delle tangibili conseguenze. Intanto, lo scambio può essere speso per contrastare l’incuria. Pensiamo alla tragedia di Genova stretta tra l’alluvione non annunciato dalla Protezione civile, la mancanza di coraggio dei politici, la burocrazia con il suo seguito di ricorsi, blocchi, sentenze del Tar, le norme pubbliche sbagliate, il congelamento di procedure per opere necessarie a salvare persone e cose. Nella gara d’insensatezze, l’eccezione l’hanno rappresentata “gli angeli del fango” che della città ferita si sono presi (per la seconda volta da quel novembre 2011) cura. Ma, ecco un altro punto complicato, la “cura” alla quale ci riferiamo, non coincide con il lavoro. Però non è lavoro residuale. Perché, al di là della prestazione d’opera pagata (poco e male quando concerne il lavoro domestico) oppure invisibile, c’è un “resto” che tiene insieme umanità e relazioni e parla di “cura del vivere”.
Ne ha scritto (nel supplemento a Leggendaria, numero 89, settembre 2011) un gruppo di femministe. Mi pare valga la pena di continuare a ragionarci. Il femminismo, agli inizi, aveva condannato (giustamente) la “cura” come oppressione femminile, destino imposto alle donne nella divisione sessuale (e patriarcale) del lavoro. Adesso abbiamo uno sguardo diverso. Una situazione diversa. D’altronde, lo dimostra il discorso pronunciato all’Onu dalla giovanissima Emma Watson e la frase della scrittrice finlandese Sofi Oksanen, alla Fiera del Libro di Francoforte: le donne possono liberarsi dalla condizione di vittime. Conosciamo meglio il lavoro di riproduzione della vita che non è solo quello che esplicitamente aiuta il ménage famigliare, che entra senza essere conteggiato nel Pil mentre tappa i buchi dei servizi sociali (in Italia, le donne dedicano alla famiglia 5 ore e venti minuti contro le 3 e 42 minuti delle svedesi). Un trasloco, un pranzo per i parenti ricomparsi dopo decenni, la visita a un’amica, il pomeriggio occupato con le prove del coro (consideriamolo “cura” di sé). Ecco, la capacità femminile di stare incollate alla vita è immensa.
Sia chiaro che l’esercizio della “cura” apre anche conflitti, genera sofferenze. Ne sanno qualcosa le donne ma anche gli uomini, oggi, che cominciano – finalmente – a praticarla, oltre le passioni professionali o artistiche. Solo non la nominano. Non ci riflettono sopra e magari (sotterraneamente) intendono gareggiare con le donne, le mogli, le compagne, le madri per strappargli la primazia di questa ambigua dote. D’altronde, loro, i maschi, si consacravano ai grandi progetti, alle luminose strategie, alla musiliana “Azione Parallela” mentre la sinistra, quella d’antan, immaginava una sorta di stato materno che avrebbe preso su di sé le urgenze della “cura”. Non è stato così. In ragione della crisi, di una democrazia incapace di controllare il mercato, che a sua volta non ha mostrato intenzione alcuna di rispettare le promesse del Welfare dei “trent’anni gloriosi” del Dopoguerra.
Nel frattempo, però, le donne sono andate avanti. Pure con il fiato corto e destreggiandosi in una varietà di compiti, obbedendo a complicate acrobazie di autosfruttamento. Ora si sono convinte di volere, insieme, un figlio e lavorare. Sì dunque alla stampella dei servizi sociali, ma anche sì alla leva fiscale, alle leggi affinché venga sostenuta la scelta di occuparsi della propria creatura, dei genitori anziani. Se dunque ci interessa la parola “cura”, dobbiamo osare di più con il pensiero. Ribaltare molte certezze. Dire che no, molto dell’assetto attuale non ci funziona. Magari, guardare al bisogno degli altri non è segno di debolezza ma leva di forza. Per noi, per tutti. Tranne, forse, per quelli che “si curano” dei propri interessi.