Pubblicato il 12 agosto 2014 sul manifesto, col titolo In una parola/ amore (e guerra)-
Ma è possibile in questi giorni una vera vacanza ? Un tempo vuoto dai dilemmi quotidiani e globali che ci inseguono e ci assillano? Una serata a Pesaro, a godersi la musica sublime di Gioacchino Rossini, potrebbe esserlo nel senso più pieno (di questo desiderabile, irraggiungibile vuoto).
Ma fino a un certo punto. Perché la storia di Armida, ahimè, ci ricorda che dopo mezzo millennio siamo ancora lì a fronteggiare Sultani e Califfi, sicuramente più efferati – a quanto si legge – di Aladino e Argante, i grandi capi della Gerusalemme da liberare e comunque alla fine passati a fil di spada dagli eroi cristiani di Torquato Tasso.
Forse ci ricordiamo dai tempi del Liceo che il poeta era nevrotico e ideologicamente tormentato, nel paese della Controriforma, e che alla fine produsse una versione politicamente ultracorretta del suo grande poema – la Gerusalemme conquistata – mondata da ogni ambiguità profana, che quasi nessuno, però, ha più letto.
Armida è un po’ la quintessenza di queste introverse ambasce barocche. Una affascinante maga asiatica mandata dallo zio Idraote a gettare scompiglio amoroso nel campo dei crociati.
Una nutrita schiera di artisti maschi – da Monteverdi a Haydn, passando per Haendel, Lully, Gluck, per restare ai soli musicisti più famosi – si è lasciata ipnotizzare dalla dialettica tra l’amore incarnato da Armida e l’onore virile e guerresco del prode Rinaldo, messo a dura prova dall’avvenenza della maga.
E il genio di Rossini non fa eccezione. Nella nuova edizione pesarese la regia di Luca Ronconi sottolinea la dipendenza dei guerrieri travestendoli da pupi siciliani. Molti sono effettivamente pupazzi appesi nella bella scenografia di Margherita Palli. Ma anche il coro e i protagonisti che cantano e agiscono, stretti nelle armature di latta sgargiante, appaiono costantemente manovrati dai fili opposti del dovere bellico e religioso, e dell’abbandono amoroso consigliato dalle arti infernali di Armida.
Su Repubblica Natalia Aspesi ha maliziosamente rilevato che anche la figura umana di Rinaldo, impersonata dal tenore Antonino Siragusa, con voce forte e chiara, ma non molto alto e con lucida pelata, non aveva il physique du role adatto a reggere l’impeto della soprano spagnola Carmen Romeu, un’Armida potente nel suo costume di uccello azzurro e tenebroso.
E Rossini non ha dubbi su da che parte stare. Forse anche perché scriveva lo spartito di fronte alla bravissima Isabella Colbran, prima interprete dell’opera a Napoli nel 1817, di cui si stava innamorando e che avrebbe di lì a poco sposata.
La storia è nota. Rinaldo soccombe all’amore. Che al di là delle magie si rivela un sentimento reale e reciproco. Diventa nel giardino della maga una specie di barocco figlio dei fiori. Ma quando arrivano i compagni d’arme e si vede riflesso negli scudi di latta con indosso collane di foglie dorate al posto dell’elmo e della spada, ha una specie di collasso, e si lascia trascinare via per tornare a combattere gli infedeli.
E’ qui che la musica di Rossini e il canto di Armida toccano le vette del capolavoro. La maga abbandonata, respinta nonostante avesse proposto al cavaliere di seguirlo ovunque quasi schiava, è incerta tra rifugiarsi nei ricordi d’amore o votarsi invece alla vendetta. Dopo breve e intensa esitazione seglie le Furie: “ad inseguir traetemi un empio, un traditor”. E sorretta da una corte di demoni dispiega tra gli acuti finali le sue ali scarlatte.
Kill Bill! Uccidi quel ridicolo e crudele Rinaldo!
Si può solo sperare, trattandosi di arti femminili, che si tratterà di una esecuzione definitiva, ma simbolica.