pubblicato su Alfabeta2
Regista, commediografo, poeta, saggista, scrittore: Peter Handke ha la capacità di tradurre le cose in parole; il mondo in una lingua alloggiata nelle pieghe del suo essere fisico, biologico. Magari ad aiutarlo c’è lo sguardo del fungaiolo. Oppure, viaggiando su autocarri scassati, spostandosi a piedi in Germania, Austria, Serbia, riesce a acciuffare del paesaggio particolari invisibili ai più, minuzie di fondamentale importanza.
Quando non scivola nella verbosità o nel lirismo, Handke fa atto di poetica (e di politica) attingendo dai pozzi artesiani della memoria.
Pure nel Saggio sul luogo tranquillo dove storie e immagini, strappate a un tempo vuoto, sono avvolte nella strana luce, indiretta, come non se ne vedeva in nessuna altra parte della casa. Indiretta. Vale a dire in assenza di finestre, e perciò tanto più materiale. Una luce avvolgente – dalla quale, dentro il Luogo Tranquillo, ci si ritrovava avvolti – “ci si ritrovava”? – “io” piuttosto mi ci ritrovavo, dunque già allora là dentro ero “Io”?
Un “Io” curvo a semicerchio nel bagno pubblico della stazione ferroviaria; acciambellato sulle piastrelle della ritirata dove troverà asilo, protezione, nascondimento. Ma c’è di più. Con il suo “metodo induttivo”, partendo dal Luogo Tranquillo, lungo un percorso misterioso riesce a toccare il quadro d’insieme.
Un quadro, certo, non pacificato. Non irenico. Infestato dai fantasmi. Uno, terribile, riproduce la condizione dell’esule. In fondo, come deve sentirsi se non uno “scrittore senza retroterra”, chi ha avuto in sorte di nascere in quel ducato sloveno – la Carinzia – che, per fuggire l’imperialismo austriaco, votò nel 1920 una sorta di autoannessione (chiamiamola così) alla giovane Jugoslavia?
Handke si descrive “senza retroterra” ma vicino agli avi della minoranza slovena. La madre apparteneva a quella minoranza. Indossò le mutandine igieniche, vi infilò ancora degli assorbenti, in più altre due paia di mutandine, si legò stretto il mento con un foulard e si mise a letto, senza accendere il termoforo, con una camicia lunga fino alle caviglie. Si distese completamente e mise le mani una sull’altra.
Fu allora, con la “documentazione” del suicidio (Infelicità senza desideri) che scoprii – scoprimmo – la condizione femminile e i rapporti di potere dominanti tra i sessi. Il romanzo, benché perlustrasse l’autobiografia famigliare, non aveva bisogno di descrizioni psicologiche (o peggio ancora, ideologiche). Adesso, nel libro più recente, appunto nel Saggio sul luogo tranquillo, Freud viene lasciato fuori dalla porta dell’orinatoio.
Handke non ha mai ceduto al conformismo dei romanzieri che fabbricano la propria carriera sul dolore e sul lutto. Al contrario, puntellandosi alle stampelle della vita, gli è capitato di indossare l’abito del guastafeste. Fin dall’inizio, da quando si mise a agitare i metodi sovversivi dell’avanguardia (Insulti al pubblico) e quindi puntò sull’école du regard (Prima del calcio di rigore). Durante lo scompaginamento drammatico della Iugoslavia, gli si è disposto contro un bel pezzo di intellighentia europea che non sopportava l’accusa di demonizzare il popolo serbo (Viaggio d’inverno ovvero Giustizia per la Serbia).
“Ho sempre oscillato tra mitezza e furore” ha risposto Handke convinto che il suo compito consista nel riportare le voci di chi non ha voce. Figuriamoci la sofferenza/insofferenza di fronte alla deflagrazione di un paese dove nazionalità diverse crescevano mischiate finché la miracolosa convivenza non è stata ricoperta dalle macerie dei bombardamenti Nato. Per i media queste fisime non avevano senso. D’altronde “la prima vittima della guerra è la verità”. Handke la sua verità prova a raccontarla con le parole. Sia che attraversi il ponte sulla Drina, sia che chiuda in orizzontale o in verticale il chiavistello del Luogo Tranquillo.
Da leggere
Peter Handke
Saggio sul luogo tranquillo
traduzione di Alessandra Iadicicco
Ugo Guanda editore (2014), 108 pp.
Euro 13,00 (i.i.)
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