Mi affascinava l’idea che una persona, da me considerata da sempre “architetto”, potesse aver cambiato il proprio medium di comunicazione e di espressione – e con un indiscusso successo poiché il suo libro è tra i cinque finalisti del premio Strega 2014 – “tardi” rispetto al normale iter di formazione. E mi interessava anche quanto oltretutto Francesco Pecoraro sostiene: che l’esistenza di internet, del suo blog e dei social networks abbia aiutato la sua scrittura a liberarsi da un’impostazione forse un po’ troppo scolastica. Non avevo letto niente scritto da lui né sapevo di questa sua copiosa attività.
Così mi sono avventurata con grande curiosità nelle 500 pagine piene di flash-back de La vita in tempo di pace. È narrata un’intera giornata, il 29 maggio del 2015, che inizia con una lunga attesa all’aeroporto di Sharm el-Sheik dove Ivo, «Ingegnere Strutturista che non progetterà mai nulla», era andato a ricostruire una barriera corallina artificiale in sostituzione di quella vera ormai devastata. La giornata si conclude con l’atterraggio dell’aereo a Roma-Fiumicino 23 ore dopo. Si alternano capitoli scanditi dall’orario di quella giornata ad altri sviluppati a ritroso – da quando era cinquantenne a quando era bambino – sui momenti e sulle scelte decisive dei quasi settant’anni di vita dell’autore. In tal modo Pecoraro elabora un romanzo testimoniale che descrive la storia, e i mutamenti culturali e sociali del nostro paese dal Dopoguerra a oggi attraverso le sue vicende personali.
Non sono un’esperta di letteratura, ho sempre privilegiato il mondo delle immagini rispetto a quello della scrittura, mi reputo una modesta lettrice, quindi non so dire se – come affermano alcuni critici – Pecoraro sia uno dei migliori romanzieri italiani di questo secolo. Non sono neanche in grado di ritrovare una continuità di scrittura con Gadda o Céline, né tantomeno un raffronto con Walter Siti. Posso però affermare, senza ombra di dubbio, che la lettura del suo libro è davvero avvincente!
La vita in tempo di pace è intenso, impegnato e impegnativo ma vi si trovano anche battute acute e perfino comiche come «…con tutto quello che ho bevuto più il Tavor, posso pure andare a dormire…Se poi devo morire, che sia…Quanti Tavor servono per morire tranquilli?» battuta destinata a essere rubata da Woody Allen, una volta tradotto il libro in inglese.
Come non identificarsi nelle vicende di Ivo Brandani? Per tutti i lettori della mia, e della sua, generazione il libro è pane per i nostri denti… A chi poi è nato e cresciuto nella Città di Dio sembra proprio di esserci dentro! Gli stessi riferimenti, lo stesso film citato, magari, visto nello stesso cinema d’essai, le stesse pubblicità e gli stessi dettagli.
Ma anche le stesse angosce e la stessa difficoltà di identificazione con “gli altri”. Gli altri chi?
C’erano negli anni della nostra adolescenza e giovinezza alcuni “dover essere” imposti dall’educazione, dalla religione, dalla classe sociale che poi sono stati sostituiti da altri “dover essere” trasgressivi, ma che hanno costituito altrettanti incombenti super-io. Le persone più sensibili hanno avuto difficoltà ad accettare fino in fondo questi dati oggettivi. Ciò, forse, è il lato che più mi ha emozionato del romanzo.
Si può considerarlo, come si dice oggi, un selfie? Cos’altro c’è in questo libro?
Ne La vita in tempo di pace, a mio avviso, si riscontrano le tematiche degli scrittori che hanno iniziato ad avere successo negli anni ’60: la descrizione dell’anti-eroe, dell’uomo fragile, di un “perdente” secondo una logica comune dominante, di un uomo che mostra le sue emozioni, fatto che non era socialmente accettato. Mentre ne Il Lamento di Portnoy la Jewish Mama (…”e le sue consorelle calabresi”…scriveva Philip Roth) costituisce l’ossessione del protagonista, per Ivo Brandani è “Padre” tutto ciò per il quale si fanno cose o contro o in adesione. Padre rappresenta l’autorità, il maschilismo, la conservazione, ma anche la storia e la memoria. Padre è anche il simbolo del lavoro, della razionalità, del tecnicismo; tutto ciò che è “dover essere” è compendiato nella figura di Padre mentre Madre è comprensiva e accogliente. Bellissimo è il racconto di Ivo bambino dal dottore che gli toglie un dente da latte cariato, e la soddisfazione di Padre «È stato molto coraggioso dal dentista… [non ha pianto n.d.r.]…ormai è un uomo queste sono frescacce» tutto verbalizzato senza mai un abbraccio né una carezza. Tutti i padri di quella generazione erano alieni dal rapporto fisico con i figli che costituiva, invece, un’esclusiva materna.
La dissociazione da sé, il vedersi agire distaccati, è ben rappresentato con il continuo passaggio alternato della narrazione dalla prima, alla seconda e alla terza persona.
Prediligo alcuni capitoli: quelli che scavano nella memoria e nel ricordo si leggono tutti di un fiato, coinvolgono, commuovono. Altri mi sembrano un po’ troppo densi, presentano una scrittura ricca di riferimenti, di dati, di notazioni (post-moderna?) che risulta, a mio avviso, faticosa alla lettura, come ad esempio Il prologo, primo impatto con il libro (considerato il pezzo migliore da Lorenzo Marchese in Contro La vita in tempo di pace) di cui, comunque, ho apprezzato molto la descrizione della Moschea, una volta chiesa bizantina: «Da lassù [dal matroneo n.d.r.] si vedeva chiaramente la torsione degli assi di simmetria cui era stato sottoposto l’edificio, l’espianto culturale subìto da quella chiesa e dalla città tutta. Le fasce di allineamento per le prosternazioni, erano disposte nella direzione della Mecca, indicata dalla nicchia del mihrab, con un andamento del tutto autonomo rispetto alla simmetria bilaterale della chiesa, confermato dalla posizione incongrua del minbar, il pulpito.»
Il Senso del Mare è senza dubbio il capitolo più godibile: l’autore – Ivo cinquantenne – si lascia proprio andare e racconta con passione le estati trascorse su un’isola greca. Una gran quantità di dettagli sulla pesca e descrizioni di figure locali molto caratteristiche come ad esempio il pescatore Anastasios che “uccide di tutto” e Nereas che ha perso in un sol colpo padre e fratello in un incidente di barca. Così dichiara Ivo «Ho sempre avuto bisogno dell’Estate come utopia, piuttosto che come stagione. Perfetta definizione Brandani, anche farsi di ouzo serve a dilatare la coscienza: l’Estate come utopia perché quelle che per gli altri sono solo vacanze, per me diventano segmenti di un’esistenza alternativa, l’unica vera e giusta, l’unica che valga la pena di vivere…Perché non ho mai riconosciuto alla vita in Inverno la dignità di meritare d’essere vissuta…Perché non ho mai preso in considerazione la terra senz’Acqua e senza Estate…Solo qui, all’Isola, o lì, a Ponza – e a Palmarola, come implementazione di Ponza fino al Sublime Acquatico, all’Assoluto Insulare del paradiso mediterraneo – vale la pena di vivere… ».
Gradevole il fantozziano capitolo Sofrano, dove Ivo trentenne inizia, nonostante sé, un processo di integrazione nel mondo del potere. Pecoraro descrive in maniera chirurgica il suo capo De Klerck (non a caso clerk in inglese vuol dire impiegato) e il triangolo amoroso (sessuale?) della gita in barca nelle isole greche. «È un maschione lui…Potremmo portarlo a scaricare i tubi a Mykonos. È una specie di porno-isola», dice De Klerck di Brandani parlando a voce alta alla sua compagna e perdendo progressivamente il suo aplomb.
Divertente e ironico è il capitolo dedicato alla Città di Mare, all’estate di Ivo adolescente (1962?) con la descrizione della sua vitalità estiva, della scoperta del mondo femminile in spiaggia e con la narrazione dei primi innamoramenti, delle feste da ballo come “luogo degli incontri amorosi”, per antonomasia, che poi proseguiranno al cinema. «Le tettoie di legno incannucciate, le tende di tela cruda blu o verde, riparano dal sole bar e baretti che vendono pizzette e Coca-Cola, aranciate, calzoni e supplì, bombe alla crema coperte di zucchero e ciambelle fritte, ma soprattutto gelati confezionati. Vendono gelati Toserone – che Ivo non ha mai assaggiato, perché la marca di fiducia di famiglia è l’Algida, al massimo Alemagna – poi Eskibon, Mottarello, Fortunello, Coppa del Nonno, ghiaccioli al limone all’arancio all’amarena alla menta, violentemente colorati di verde rosso giallo magenta, arcobaleno»: tutte preziose descrizioni di reperti d’epoca.
Personalmente ho apprezzato in modo particolare il capitolo dedicato alla Città di Dio: si sente che chi l’ha scritto non solo è architetto, ma conosce molto bene la storia urbana di Roma. A ciò si aggiunge l’ironia nella descrizione del quartiere Delle Vittorie con la sua geometria rassicurante in contrapposizione al minaccioso Centro Storico disordinato e rovinato. Mi ha evocato, per un attimo, Flatlandia di Edwin A. Abbott dove la geometria è l’unico mezzo di comunicazione in un mondo bidimensionale e le forme geometriche coincidono con le classi sociali: quadrati e pentagoni sono i professionisti, i triangoli sono gli operai giù fino ai segmenti che sono – guarda caso – le donne. In crescendo, nel finale del capitolo dedicato alla Città di Dio, trova posto anche la divertente descrizione del rapporto/scontro tra Ivo e il cattivissimo Nasini, un personaggio frustrato – Quello-che-Mena – presente nel quartiere durante l’infanzia di Ivo. Così Francesco Pecoraro disegna la zona di Piazza Mazzini: «Come negare che il quartiere in cui nacque e visse a lungo, dopo l’esilio post-bellico, non avesse lasciato segni indelebili all’interno del suo cranio, di bambino prima, di uomo poi? E che dire di tutto il resto? Dello sbuffo d’aria compressa dei filobus che facevano fermata sotto casa, del suono misterioso emesso dalla Circolare Rossa, di quello più antico e stridulo della Circolare Nera, linea, questa, servita da vetture dette a stanga, invece che articolate in due vagoni? Che dire dei lecci con chioma tagliata quadra, dei pini, del brecciolino di fiume di cui erano cosparsi i viali dei giardinetti della città? Come tralasciare tutte le altre cose che segnarono, come i travertini scolpiti a forma di coccodrillo della fontana nella Piazza Centrale del suo quartiere, come il profumo di pane che al mattino presto si spandeva nel cortile? E nemmeno si può sorvolare sulle luminescenze colorate che le persiane chiuse proiettavano sul soffitto della sua prima camera da letto, la domenica mattina, quando la grande chiesa con le due torri di mattoni rossi scampanava a tutto andare, trasformando quegli istanti in qualcosa di mistico e accogliente, fatto e costruito solo per lui. E quella promessa di futuro? Non era per lui? Per lui e basta?».
In qualche misura, i soggetti principali della scrittura di Pecoraro mi ricordano un po’ quelli di Alessandro Piperno. Entrambi sono osservatori critici di una borghesia romana: una “pratarola” un po’ più fascista, l’altra, quella dell’Olgiata, forse più ricca ma sicuramente più recente. Infatti, Piperno è molto più giovane di Pecoraro e la sua vita scorre in un periodo di “troppa pace”, anche se tende a retrodatare le sue ambientazioni. Piperno è più judaico (sebbene lo sia solo a metà e sia persino andato a scuola dai preti), talvolta meno autobiografico – dipende dai romanzi – più scaltro nello scrivere (è il suo mestiere da sempre). Pecoraro a mio avviso è molto più empatico, sembra scriva per liberarsi, alla ricerca di un esorcismo: anche il suo vomito in aereo può essere considerato metaforico.
Toccati tutti i nodi fondamentali della propria storia, è strano che l’autore non abbia fatto comparire a un certo punto una figura di psicoanalista. La scrittura, probabilmente, l’ha sostituito.
da leggere:
LA VITA IN TEMPO DI PACE
di FRANCESCO PECORARO
Ponte alle grazie, 2014, pp. 512