Pubblicato sul manifesto il 10 giugno 2014 –
Oggi, 11 giugno, è la ricorrenza della morte di Enrico Berlinguer. Le occasioni di ricordo e riflessione, i tanti nuovi libri, il film di Veltroni, l’imprevista disputa tra Grillo e Renzi sulla memoria del segretario del Pci: è stato un crescendo che in questo trentesimo ha riportato la figura di Berlinguer al centro del dibattito politico. E più si avvicinava la data di quel suo comizio stroncato dal male a Padova, più si è riaccesa la discussione sulla figura e le posizioni politiche del dirigente comunista.
In un momento di così acuta crisi della politica, e con il riesplodere della “questione morale”, per molti è facile rimpiangere una personalità come la sua. Ma in realtà Berlinguer – come tutti i politici capaci di scelte di valore storico – divide. Sono abbastanza anziano per ricordare lo sconcerto che aveva creato nel Pci la sua linea del “compromesso storico” – e più ancora la traduzione nella “solidarietà nazionale” con l’appoggio parlamentare a monocolori democristiani – per non dire degli interrogativi assai più forti, e sempre più preoccupati, che – sicuramente nel quadro dirigente – suscitò la successiva scelta per l’”alternativa” negli ultimi anni prima della morte.
L’uomo che era stato così prudente verso il ’68, per non dire del ’77 “diciannovista”, apre al movimento pacifista e ambientalista, parla della rivoluzione femminista, critica duramente i partiti – non solo quelli “governativi”, e quindi implicitamente anche il suo – per una occupazione delle istituzioni che tradisce la stessa Costituzione.
Un ultimo Berlinguer “di sinistra”, avversato dalla destra prima di tutto nel Pci?
Ho ascoltato Emanuele Macaluso, alla presentazione della nuova edizione del libro di Chiara Valentini (Enrico Berlinguer, Universale economica Feltrinelli)
rifiutare con veemenza la definizione stessa di destra comunista. E affermare provocatoriamente che i leader della destra nel Pci sarebbero stati allora di volta in volta Togliatti, e poi il terzetto composto da Bufalini, Berlinguer e Ingrao, che Longo incaricò di contestare un Amendola che proponeva (metà anni ’60) il partito unico con il Psi, e poi di nuovo lo stesso Berlinguer, promosso già da Togliatti alla guida dello strategico “ufficio di segreteria”.
C’è stata certamente una continuità tra il Berlinguer che parlava di “elementi di socialismo” dentro il “compromesso storico” e la sua ultima ricerca che non rinunciava al nome del comunismo e rifiutava, pur in dialogo con Palme e Brandt, la conversione alla socialdemocrazia. Era il pensiero della possibilità di un “superamento” del capitalismo, nella democrazia.
Ma con la frase sull’”esaurimento della spinta propulsiva” dell’Ottobre (1981) e l’elaborazione degli ultimi anni a me sembra che venga meno quella “continuità” con Togliatti che afferma Macaluso. Almeno come ipotesi di una ricerca che fu bloccata dalla morte di un uomo ancora nel pieno della maturità.
Resta che quell’ideale radicale di cambiamento, nell’intenzione e nei sentimenti, oltre che nelle più o meno sostenibili definizioni razionali, animava una politica con un “orizzonte”, non tutta conclusa nelle scelte del giorno per giorno.
La sinistra di cultura laica sembra aver smarrito poi questa ricchezza, e ciò forse aiuta a spiegare il successo, nello stesso Pd, di una nuova generazione di formazione cattolica, al di là delle troppo facili battute sulla “nuova Dc”. L’elemento religioso – anche se nella semplice declinazione “da boy scout”, per dirla con Galli della Loggia – forse riempie almeno un po’ il vuoto di quella spinta, esaurita non solo nella tragedia del socialismo realizzato.
Ma qui comincerebbe un altro discorso.