Anche le famiglie più povere in Pakistan hanno una donna o un uomo che per pochi soldi e qualche ora al giorno fa le pulizie, lava gli indumenti, prepara il roti (il pane) per il pranzo. I più ricchi, come è ovvio, ne hanno molte/i e li chiamano servants, servi. Un mio amico, bella persona davvero, ne ha uno non più vecchio di 15 anni che lo segue nei suoi spostamenti di affari, una specie di attendente: cucina, tiene in ordine gli abiti. Per i servi il tempo non esiste, aspettare fa parte del loro lavoro: essere presenti quando il padrone o la padrona arrivano, quando chiedono, quando hanno bisogno. Non riesco a digerire in nessun modo la parola servo, ogni volta che la sento mi viene un crampo allo stomaco: chiamateli almeno housepkeepers supplico i miei amici, la schiavitù è formalmente abolita anche in Pakistan.
I servi sono allo stesso tempo parte di un sistema sociale complesso e articolato, dove le gerarchie sono rispettate nell’apparente disordine quotidiano del paese. La servitù è frutto del sistema di caste e del colonialismo britannico e cercare le colpe è inutile. Nel ricco, ricchissimo Punjab ci sono per forza anche i poveri (altrimenti non esisterebbero né capitalismo né post-capitalismo) e talvolta è meglio se una famiglia ti prende dal tuo villaggio e ti porta a fare lo schiavo in città: a volte sono magnanimi, altre volte meno. E noi in Europa sappiamo bene quanto possano essere raffinate le forme di schiavismo. Ogni volta che vedo ragazze e ragazzi servi, silenziosi, ossequiosi, sempre disponibili, non posso fare a meno di chiedermi: avranno studiato almeno un po’? C’è qualcuno che pensa a loro in qualche luogo lontano la sera prima di dormire ?
Ieri nel risciò, fermi al semaforo, il guidatore ha dato una monetina a una bambina che chiedeva l’elemosina: delicato, l’ha guardata con affetto e le ha messo una mano sulla testa prima che andasse via. Entrambi servi di un sistema che non perdona (è di ieri la notizia di una ricerca della Harvard University dedicata alla percezione della povertà in Pakistan come sorella dell’ignominia, dunque non solo povero ma anche maledetto, come spesso ha scritto anche Foucault), il traffico quotidiano ha concesso spazio all’esercizio di uno dei principi più forti dell’Islam, la carità. Io le preferisco quello latino di pietas, la pietà che assume in sé anche la cura, più attiva, più responsabilizzante, e immensamente più gratificante.
Servi dei servi. Da Lahore ascolto Curre curre guagliò dei 99 Posse: il loro impegno militante e i loro post quotidiani su FB mi ricordano che vivo pur sempre per qualche mese all’anno in Italia, che sono stanca di combattere sempre per le stesse cose. Loro stanchi non sono: i video dei pestaggi della polizia a ragazze inermi nel pieno centro di Roma, la voce della madre di Stefano Cucchi, morto in carcere dopo i pestaggi e le torture fanno venire il vomito per l’orrore e per l’indignazione. Qui gli stessi servi dei servi, ugualmente sottopagati e schiavi di un rigido sistema (sorvegliare e punire) eseguono ordini e picchiano duro. Due giorni fa a Karachi il giornalista di Geonews Hamid Mir è stato colpito da tre proettili mentre tornava a casa dall’aeroporto. Suo fratello, ugualmente reporter, ha denunciato con coraggio la responsabilità dei servizi segreti nell’attentato, dichiarando che Hamid Mir aveva lasciato un video in cui venivano chiaramente esposti i pericoli che correva, insieme alle responsabilità di chi stava ignorando quei rischi, anzi ne è probabilmente responsabile.
Servi di scena. Nel celebre film di Joseph Losey il servo di scena vive per il grande attore sul palcoscenico, ne subisce le angherie, ne sopporta i malumori, ne cura gli aspetti materiali della vita quotidiana. Senza di lui il grande attore è un uomo perduto. Senza servi – a volte ne abbiamo intorno senza averne completa coscienza – siamo perduti, e noi servi dei servi spesso obbediamo senza convincimento, stanche/i di molte battaglie.
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