Pubblicato sul manifesto del 18 marzo 2014 –
Ho rivisto e riascoltato a Genova, dopo molti anni, le Nozze di Figaro di Mozart e Da Ponte. Sono rimasto sorpreso dalla quantità di risonanze che questo capolavoro ha prodotto nel mio cervello con i pensieri evocati dalle nostre vicende politiche quotidiane.
Conflitti di classe e di genere, come era scritto e argomentato persino nel programma di sala. Il potere politico del Conte, che pretende di restaurare il diritto medievale della “prima notte” a garanzia del proprio capriccioso desiderio per Susanna, promessa sposa di Figaro (il quale si ribella, da bravo rappresentante di un sorgente “terzo stato”). Le alleanze femminili che hanno alla fine la meglio su maschi per lo più “instupiditi”. L’irresistibile ambiguità e forza erotica – quasi transgender – di Cherubino. La condanna della violenza maschile, sempre in agguato (nemmeno “le più feroci belve” – canta Marcellina – agiscono contro le proprie compagne la “crudeltà” che “questi uomini, che tanto amiam” rivolgono a “noi povere femmine”). D’altra parte, come si sa, l’uomo nulla può contro le “streghe che incantano per farci penar”, come risponde subito dopo Figaro.
Si dirà: cose arcinote e discusse in termini estetici, storici e filosofici da quasi tre secoli. Tuttavia quando le stesse cose ritornano offrono spesso aspetti non visti, evocati dallo spirito del tempo presente.
Di fronte alla messa in scena del conflitto tra i sessi nell’attuale governo della parità perfetta e nel Parlamento dei maschi che, protetti dal voto segreto, rifiutano le quote rivendicate dalle elette vestite di bianco, alcune femministe – su questo giornale anche Alessandra Bocchetti – hanno parlato di un patriarcato senza padre, trasformato nel potere scomposto e aggressivo dei giovani fratelli.
Ascoltando la musica di Mozart – piena di eros e di libertà – ho pensato che in realtà fin dalle origini la rivoluzione borghese e democratica era una forma di fratriarcato. Lo dice a modo suo Kojeve, nel saggio sull’autorità, rimproverando a Montesquieu di aver elaborato un sistema di potere (il famoso equilibrio tra esecutivo, legislativo e giudiziario) in cui manca l’essenziale figura paterna. Questa mancanza avrebbe generato l’instabilità strutturale delle democrazie di cui siamo tuttora testimoni (infatti sono stati poi inventati vari presidenzialismi).
Resta che era ed è rimasta fino a oggi una faccenda tutta determinata dal maschile. Hanno – abbiamo – scritto libertà e uguaglianza, ma era implicito che riguardavano la fratellanza (la prima donna che aveva preso sul serio l’universalismo di quelle parole fu, com’è noto, immediatamente ghigliottinata).
Io mi permetto di dire, dunque, che la vera mancanza della democrazia moderna è stata la rimozione della differenza dei sessi (in fondo la monarchia, invece, l’ha sia pure contraddittoriamente rappresentata: sarà un caso che il Parlamento duri forte da tanti secoli nel paese delle grandi regine?).
Eppure Montesquieu sapeva benissimo, soprattutto travestito da viaggiatore persiano, che esisteva una “repubblica delle donne” capace di una forte egemonia nella società del suo tempo. Proprio in quei salotti animati da coltissime dame erano nate le idee rivoluzionarie. Ma appena saliti al potere se lo sono – ce lo siamo – dimenticati.
Una istanza simbolica così profonda che nemmeno dopo decenni e decenni di suffragio universale è stata superata nella politica di partiti e istituzioni.
Mi è capitato spesso di discutere, con amici e amiche, sull’esigenza di vivere e praticare relazioni politiche tra uomini e donne finalmente capaci di oltrepassare questa frattura. Si sono creati due partiti: per riuscirci davvero è necessario elaborare una nuova esperienza dell’eros. Ma no, è troppo difficile, la cosa è urgente e disponiamoci intanto a una leale alleanza.
Di una cosa resto convinto: premesso che un maschio bene educato dovrebbe sempre cedere il passo, né le quote, né il 50/50 di per sé ci aiutano a risolvere il dilemma (sempre che si desideri farlo sul serio).