Pubblicato sul manifesto il 21 gennaio 2014 –
Quando Matteo Renzi per affrontare un tema drammaticamente urgente come la mancanza di lavoro ha usato il termine Jobs Act, ci siamo chiesti che bisogno ci fosse di usare termini inglesi per una cosa che poteva essere detta benissimo in italiano. Ma – al di là degli effetti mediatici delle due parolette – si deve anche prendere atto che ormai l’inglese è la koynè del mondo globalizzato in cui viviamo. Inoltre non sfugge la sfumatura politica che offre il linguaggio: un “piano del lavoro” evoca il passato, certo glorioso, di Di Vittorio e della Cgil, un Jobs Act fa pensare a Obama e a un’azione determinata, efficace.
Mi sono posto domande simili accettando la proposta di alcune amiche di discutere pubblicamente un libro con questo titolo: Imparare, sbagliare, vivere. Storie di lifelong learning. (Per chi fosse interessato il testo, a cura di Laura Balbo, sarà presentato venerdì prossimo, 24 gennaio, alle 18 alla Casa internazionale delle donne di Roma, con Mariella Gramaglia e Marina Piazza). Perché dire lifelong learning e non, per esempio, educazione permanente, che ne è una delle possibili traduzioni? In realtà il termine inglese è molto più ricco di sfumature e significati. Potrei provare a renderlo apprendendo lungo l’intera vita. C’è subito uno scarto tra l’idea di noiosi corsi di aggiornamento serali, e invece tutto quello che si impara nelle molteplici relazioni vitali, non solo in qualche scuola e nel lavoro, ma a contatto con gli affetti e gli interessi più profondi, con la varietà dei mondi e dei tempi che attraversiamo.
Ed è soprattutto questo il senso di queste storie: le donne, studiose di scienze sociali, che negli anni 70 e 80 avevano dato vita al gruppo Griff (Gruppo di ricerca sulla famiglia e la condizione femminile) si sono ritrovate oggi per raccontarsi e raccontare le proprie vite, alla luce della necessità-desiderio di continuare a imparare e disimparare, di essere capaci di cambiare, anche grazie a una particolare capacità di cura (il che non significa rimuovere i conflitti, ma anzi riconoscerli e affrontarli).
Provo spesso un po’ di invidia per questa capacità femminile di ragionare con passione su di sé e sul proprio rapporto con gli altri, con il mondo, con il tempo. Guardo Renzi e il gioco politico molto spregiudicato e molto rischioso che sta conducendo. Mi auguro che ottenga alla fine un accordo decente. Ma faccio una fantasia: se lui e gli altri uomini della sinistra, rottamati e no, si prendessero il tempo di chiedersi quale sia stato e quale sia il loro percorso di lifelong learning, non sarebbe ben speso per risollevare un po’ la politica? Forse non ne sono, non ne siamo capaci.