Note a sostegno della proposta di programmi di educazione sentimentale nelle scuole, a tutti i livelli, come strumento per comportamenti non violenti e solidali nelle relazioni tra uomini e donne
I bambini e le bambine dovrebbero essere abituati – in quel fondamentale luogo pubblico, di relazione sociale e di formazione cognitiva che è la scuola – a riflettere, indagare, parlare ed esprimere sentimenti sul valore umano – sociale e simbolico, oltre che immediatamente affettivo – contenuto nella pratica della cura materna, che è atto d’amore e pratica di relazione fondativi. Di quella donna, delle donne che li mettono al mondo, li fanno crescere, li mettono in comunicazione con la realtà, a partire dall’esclusiva relazione simbiotica col proprio corpo/mente; e andando a tal punto oltre quella relazione primaria da infondere loro la forza di farne a meno e andare avanti nella vita, costruendone altre. La qualità della vita è nella qualità delle relazioni, affettive e sociali, di quelle che attraversano le vicende amorose o segnano le affinità elettive di ognuna, ognuno di noi.
Le donne, con quel curarsi di loro, delle creature, che fa ordine sulle cose essenziali della vita, stabilisce priorità, dà forza per il futuro. Costruisce il mondo. Preziosità della relazione e dell’ averne consapevolezza e cura, soprattutto oggi che la contemporaneità sembra volerci condannare alla dimensione straniante della solitudine e alla caduta di ogni vincolo significativo.
Anche questa dimensione – l’assenza di consapevolezza sul significato e il senso della pratica relazionale – entra nel problema della violenza sulle donne, contribuendo a inasprire la crisi post patriarcale in cui versa l’identità maschile.
Occorrerebbe invece alimentare una cultura di attenzione e valorizzazione della pratica della cura, dell’inclinazione a farsene carico, decostruendo criticamente l’idea che si tratti di un mero dispositivo di ordine domestico, in qualche misura dovuto ai meccanismi automatici di quell’ordine o come se si trattasse soltanto di una dimensione “naturale”, conseguenza del banale stereotipo che “la mamma è la mamma”. Mammismo deteriore, ancora così forte da noi, che riduce a vicenda intima e privata la dimensione della cura, che è invece un complesso meccanismo sociale e culturale alla base di tutto, che tutto tiene insieme e alimenta. E quando si rompe, molte cose falliscono.
Occorrerebbe che le ragazze e i ragazzi imparassero a fare i conti con la cultura, la storia, le cose del mondo nella loro complessità, operando uno spostamento dello sguardo, per avere così una reale dimestichezza con l’esperienza delle donne, imparando a conoscerle come autentici soggetti della vicenda umana: donne di pensiero, scrittrici e poete, scienziate, pioniere. Politiche e testimoni del loro tempo. Non più sconosciute o quasi sconosciute o per lo più o ridotte a una nota aggiuntiva, una parentesi di qualcosa che rimane saldamente nelle mani degli uomini; messe là per caso, senza presa nel contesto storico sociale, derubate dei percorsi intrapresi, dei segni lasciati.
Scrive Christian Raimo nel suo intenso articolo sul femminicidio (Europa, 24 agosto 2013), “quando uno dice che cosa si può fare contro il femminicidio oggi in Italia, la mia risposta è lateralissima: leggere più libri scritti da donne alle elementari e alle superiori, studiare di più il pensiero femminista alle superiori e all’università. Far sì che per esempio La campana di vetro non sia una chicca introvabile ma un best-seller estivo per studenti come Il giovane Holden; inserire nei programmi di filosofia, letteratura, storia delle superiori una parte significativa dedicata al femminismo storico; desacralizzare autrici come Amelia Rosselli o Cristina Campo dalla loro pseudosantificazione nelle cattedre di studi femminili e pensarle come centrali in un canone della letteratura italiana.”
Che degli uomini pensino in questa direzione, a partire dalla propria esperienza e dal proprio sentire, apre una strada che può fare la differenza nel misurarsi con il problema della violenza sulle donne. Nel capire di che si tratti e che cosa valga la pena di fare per contrastarla.
Mettersi in relazione sentimentale col mondo delle donne. Capire le cose attraverso il loro sguardo e la loro parola. Elaborare meccanismi di scambio e reciprocità tra quello stare differentemente al mondo di donne e uomini, che è alla base della vicenda umana. Stare differentemente al mondo: non per legge di natura, come voleva l’ordine patriarcale ma per libertà femminile, come hanno voluto le donne.
Questo è uno snodo di quella che chiamiamo educazione sentimentale. Può essere avviata e alimentata in tanti modi e per tante strade, che hanno a che fare in primo luogo con la cultura. La scuola, per quello che è, a tutti i livelli, dovrebbe esserne fortemente investita: con programmi studiati ad hoc, adeguata formazione del personale insegnante, fondi per la ricerca e la sperimentazione.
L’atto estremo della violenza sulle donne è il femminicidio, che i media e i talk show hanno molto discusso nell’ultimo anno ma spesso con morbosa dovizia di particolari e confusione delle problematiche. Materia ridotta a noir come poche, nell’epoca in cui thriller noir e polizieschi si sono presi il compito di ridisegnare le mappe angoscianti dell’esistenza contemporanea. E materia da stato di emergenza, da politiche securitarie, come è successo col “pacchetto” omnibus votato a ottobre di quest’anno. E invece è materia della vita, in cui si intrecciano storia, antropologia, società, cultura. Dimensione materiale e dimensione simbolica, che accompagnano sempre l’incontro tra donne e uomini.
Sono state proprio loro, le donne, a mettere in chiaro le cose relative alla violenza, smontandone la costruzione ideologica di stampo securitario, spiegando che il violentatore “ha le chiavi di casa” e che nel maggior numero dei casi la vittima conosce bene il suo carnefice. “Intimate partner”: violenza che si consuma nell’intimità della relazione. Così è venuto in chiaro che tra le mura domestiche si annida il grumo nero di una violenza di “contiguità relazionale”, e i casi di femminicidio “domestico” hanno cominciato a occupare le pagine dei giornali. Spostamento dello sguardo, che le donne hanno indirizzato dal prevalente stereotipo “etnico” alla realtà dell’ambiente domestico.
Non tutti gli uomini sono violenti, stalking, assassini di donne. Ovviamente. Ma così come non c’è una tipologia di donna che più facilmente può cadere nella spirale psicologico – esistenziale della “trappola d’amore”, (lo stereotipo della donna “debole”, che non sa capire, non sa sottrarsi e via di questo passo), così non c’è una tipologia di uomo che più inesorabilmente degli altri abbia la predisposizione all’eccesso di violenza.
Uomini miti e uomini violenti, radicalmente divisi in due campi? Niente di più lontano dalla realtà.
Gli uomini, fino a ieri, di fronte alla violenza sulle donne giravano lo sguardo altrove, per non occuparsi di una materia così scabrosa che parla di loro, per non riflettere su se stessi, per non fare i conti con il rimosso si turbamenti e contraddizioni che spesso li assillano. La violenza è sempre descritta da loro come faccenda di altri, indecifrabile nelle ragion che la muovono. E’ raro che parlino di se stessi. “Il” problema.
La violenza sulle donne ha radici antiche ma si alimenta, in modo penetrante, performativo, dei profondi cambiamenti della contemporaneità, delle crisi di identità e degli slittamenti di senso, degli effetti che la mappa della libertà femminile ha impresso alla società, della fine dell’ordine patriarcale, e dunque del venir meno di un ordine simbolico e sociale in cui la gerarchia del potere maschile trovava riscontro, conforto, legittimazione, dando certezza agli uomini che ogni loro azione nei confronti delle donne corrispondeva al giusto. La crisi dell’identità maschile, l’ incapacità maschile di fare i conti col cuore di tenebra delle proprie pulsioni, con la propria sessualità, con la tentazione del possesso di quel corpo di donna. Tutto non secondario in un percorso di educazione sentimentale
“Occorrerebbe sfumare un po’ i confini tra una comunità di persone razionali e perbene (uomini avvertiti, compagni che affiancano le proprie donne nelle loro battaglie, che decidono di accompagnare le loro partner alle manifestazioni sulla violenza domestica) e un’altra massa di uomini potenzialmente violenti, che covano sotto le camicie inamidate e uno sguardo innocuo un impulso alla brutalità pronto a emergere al primo raptus. Io preferirei che se un discorso maschile deve partire sul femminicidio si cominciasse a riconoscere l’esistenza di una “zona grigia” in cui la razionalità e l’irrazionalità sono confuse.” (Raimo)
La violenza sulle donne è legata ai percorsi di vita della donna che la subisce, ai desideri di cui sono intessute le sue relazioni, agli inganni e alle bugie di quella vera e propria “trappola d’amore” in cui a un certo punto una donna può precipitare. Non di rado, per alcune, come le cronache ci raccontano, con esiti violenti e fatali. Standoci dentro con un’ostinazione che nasce dalla dimensione avvolgente, essenziale, che spesso, per la vita di una donna, acquista la relazione con l’altro. Siamo di fronte a una dimensione intima e spesso inestricabile, la faglia densa di contraddizioni che, per ogni donna, imprigiona il rapporto tra pubblico e privato, tra personale e politico. Una dimensione – lo sappiamo bene – spesso opaca, indecifrabile, inafferrabile, dove agisce la seduzione dell’amore, il coinvolgimento delle emozioni, di natura tale da eccedere sempre il rapporto che la legge sul piano generale stabilisce tra lo Stato e le sue cittadine.
Cambiare rotta, lasciar perdere l’idea aberrante che il problema si possa risolvere con qualche inasprimento della legge penale. Scelte a latere, passo dopo passo. Con l’idea di cambiare le cose in profondità.
Ma non bastano neanche – ancorché da considerare collegata a quello che meglio può servire – la programmazione di corsi di cultura di genere, che declinino la storia umana facendo spazio alle donne, o lavori di decostruzione degli stereotipi sul corpo delle donne, o mappe delle pari opportunità.
Tutte cose in qualche misura utili. Ci sono sperimentazioni con cui confrontarsi: in Francia, Svezia, Regno Unito. Anche in Italia. Ma il problema di fondo è dare impulso a un’autentica semantica dei sentimenti, una grammatica dell’amore, una capacità di confronto sugli immaginari, i simboli, i riferimenti che accompagnano i percorsi di formazione delle giovani generazioni. Parole e pratiche di scambio.
La violenza contro le donne, nel momento in cui si manifesta, è dominata dall’afasia. Di entrambi, dell’una e dell’altro, intrappolati entrambi, vittima e carnefice, nel lato in ombra dei sentimenti, di cui mai si riesce a parlare. Urla, imprecazioni, farneticazioni e lamenti, suppliche, pianto. Implosione dei sentimenti di fronte alle pulsioni elementari del predare e del cercare scampo, dell’imporsi con la brutalità della forza e del cercare riparo da quella brutalità. Caduta abissale, spesso senza ritorno, dell’intendersi attraverso le parole, del comunicare, dello spiegarsi. Tutto si riduce al grande rimosso del rapporto, a quel lato oscuro e ancestrale. Che giace per lo più sepolto nelle complesse sedimentazioni della modernità, allontanato dal discorso pubblico e ignorato dalle riflessioni correnti ma ancora in grado, non di rado, di tornare a galla violentemente, esplodere, dettare i modi della sessualità maschile e le regole del rapporto, la spinta al possesso del corpo femminile, oggetto di un desiderio ferino che uccide i contesti, le storie, i sentimenti.
Mancano le parole, le pratiche, le sfide di un incontrarsi che sia tale, che sappia mettere in gioco una reciprocità dei sentimenti e del differente modo di vivere le cose di donne e uomini. Non c’è cultura di questo, per questo.
L’educazione sentimentale, avviata con “ricchezza” di intenti fin dalla scuola elementare, modulata via via, secondo lo sviluppo del percorso formativo di ragazze e ragazzi, giocata come elemento centrale per favorire la formazione di comunità di persone giovani, è lo strumento che forse meglio di altri può offrire occasioni importanti per stimolare la consapevolezza – in donne e uomini – del lato oscuramente ambiguo che fa spesso da schermo alla violenza sulle donne, depista, camuffa, offre alibi interpretativi alla violenza. Anche al giudice che sentenzia: eccesso d’amore, gelosia d’amore, crimine d’amore, delitto passionale. E così via.
Più in generale l’educazione sentimentale può essere lo strumento in grado di suscitare e arricchire il sentimento del mondo, il senso delle relazioni, la conoscenza dell’”altro”. Che cosa sia l’amore, oggi, per i ragazzi e le ragazze. Quale sia il significato intimo, profondo indicibile della parola, l’immaginario a cui rimanda, le suggestioni che alimenta, i sogni che implementa, la catena di sentimenti che sviluppa. Nell’epoca in cui la sessualità è sempre più precoce e spesso esibita e l’immaginario è spesso regressivo e l’autonomia pratica delle ragazze convive con la subalternità psicologica al “sogno d’amore”, mentre lo spiazzamento dei maschi di fronte a quell’autonomia trova rifugio in rinnovate forme di potere. Forza e possesso.
L’antidoto alla violenza, l’alternativa alla violenza è in primo luogo, la parola, che è al fondamento della cultura, è il fondamento della cultura.