Sono d’accordo con Francesca Rosati Freeman nei suoi commenti all’
intervista di Bia Sarasini a Ricardo Coler, a proposito del grave equivoco culturale e politico che si crea, accreditando l’idea che nella società Mosuo “comandano le donne”. Aggiungo che, come ci hanno insegnato gli studi di molte e in modo particolare – su questo punto – la ricerca e la pratica di
Heide Göttner-Abendroth, è il paradigma che va cambiato, se si vogliono capire veramente le società cosiddette “in balance” (ossia senza sopraffazione di un sesso sull’altro), dove si pratica il “visiting marriage” (le coppie si incontrano nella stessa casa soltanto di notte).
Società dove, per riconoscimento di chi ha studiato questo e altri popoli che conservano tale struttura sociale e culturale, non COMANDA nessuno, ne’ uomini ne’ donne.
(Avendo letto un po’ di cose sui Mosuo fa rabbrividire la frase di Coler a proposito del fatto che di giorno le donne “guardano gli uomini dall’alto in basso”. Impensabile! Proiezione?)
Il paradigma che emerge dall’intervista (il libro non l’ho letto, mi spiace)è quello vecchio, da Bachofen in poi, che vede queste società come società in cui vengono ROVESCIATI i ruoli tradizionali. Bachofen ne negava l’esistenza, ma così le vedeva. Mi sembra che Francesca Rosati Freeman spieghi molto bene che non è proprio questa la cosa.
Non per niente, tutte le studiose che hanno riscoperto e ri-valorizzato queste società, a partire da Marija Gimbutas, non hanno voluto usare il termine matriarcato (“comando delle madri”, come estensione del significato di arché, principio), per non cadere in quel paradigma sbagliato e in quest’equivoco.
Il termine viene usato, consapevolmente e scientemente da HGA (acronimo con cui è conosciuta Heide fra chi la legge e la frequenta), perché lei traduce il suffisso greco arche’ in altro modo: non principio/comando, ma INIZIO. E cosi’ facendo vuole onorare la madri da cui tutto è cominciato ( e da cui tutto, in fondo, comincia).
Come accennava Francesca Rosati Freeman a commento dell’intervista di Bia, le società “in balance” ci dicono altro da un semplice trasferimento di potere e di comando da un sesso all’altro, ci insegnano come si può superare la pratica e il concetto patriarcale di potere stesso, basato sulla sopraffazione di un sesso su un altro, sull’uso della violenza anche nelle forme della manipolazione intellettuale e dei ruoli, sulla disparità che sottovaluta (piuttosto che sulla differenza che nutre e arricchisce).
Le società “in balance” ci dicono che si può improntare la vita sociale sull’autorevolezza femminile, che non è MAI autorità fine a se stessa, con l’unico scopo di riprodursi e incrementare il potere di qualcun/a su qualcuna/ qualcun altro, ma viene usata SEMPRE ai fini del bene comune e per progredire tutte e tutti insieme, uomini e donne, nelle loro differenze.
Non c’è alcuna arroganza tipica del potere.
(Vedi stupore dell’autore intervistato per il fatto che le donne Mosuo, dopo aver organizzato e disposto i lavori da svolgere, vi partecipino anch’esse.)
Seguendo il ragionamento riduttivo che emerge dall’intervista, noi donne dovremmo essere felici e accontentarci del fatto che le manager donna, ad esempio, sappiano COMANDARE meglio degli uomini (maggiore collaborazione, condivisione, ecc, cose stranote su cui non mi soffermo), mentre dalle società “in balance” emerge chiaramente che non è proprio questo il punto. Il punto è: da quali caratteristiche o qualità nasce l’autorevolezza capace di organizzare una società in modo armonico, e in modo che nessuno/a venga penalizzata/o, in modo che le risorse siano ben distribuite, che non si distrugga l’ambiente, che siano bandite avidità calcolo e violenza? Quelle società credono che la fonte di queste caratteristiche e qualità l’abbiano le donne, e su quelle qualità si reggono.
Gli uomini si conformano perché trovano quelle regole buone e convenienti, piacevoli per sé, quindi non c’è proprio bisogno, a mio avviso, che nessuna/o comandi.
Un punto secondario di dissenso mio dal modo come l’intervista fa immaginare la socieà dei Mosuo riguarda la sottolineatura dell’aspetto della libertà sessuale nella pratica del “visiting marriage”. Quest’aspetto, da quel che ho letto, sicuramente c’è, ma non è il principale.
La ragione del “visiting” sta nel fatto che nessuna persona, maschio o femmina, lascerà mai di giorno la casa della madre, e il motivo profondo, a mio avviso, è che così nessuna persona mai si allontanerà dalle fonti di quella autorevolezza originaria.
Capisco bene che, così descritte, queste società assomiglino a un’utopia; e non mi azzardo neppure a immaginare che se ne possa costruire oggi l’eguale, ma penso che sia ormai improcrastinabile discutere e superare il vecchio paradigma alla base delle storiche discussioni sul matriarcato. Come l’intervista di Bia Sarasini secondo me dimostra, sono sottili e pericolose le trappole del (vecchio) paradigma, o dei (vecchi) paradigmi, perché di questo tema si sono occupate antropologia e sociologia, storia delle religioni e molte altre discipline. Come dimostra il fatto che sia caduta in qualche equivoco Bia Sarasini, una donna espertissima di cose di donne, attentissima e intelligente, abituata a guardare sempre oltre, femminista senza aggettivi.
Che io stimo moltissimo.
Non oso pensare come potranno fare strame del popolo Mosuo i cosiddetti “media”, quindi se qualcosa del mio ragionare vi ha convinte/i, cercate su internet il sito e il libro di Heide, pubblicato in Italia da Venexia, i testi di Riane Eisler e via via quanto potrà servire a tutte noi per fondare un nuovo paradigma.