Le leggi possono quello che possono. Per questo non sono d’accordo con la mia amica Elettra Deiana che definisce “oscena” la legge sul femminicidio (inserita a forza nel pacchetto sicurezza, sbandierata come fiore all’occhiello dal governo Letta). Io direi che questa legge è frutto di un riformismo d’accatto, incapace di riconoscere alle donne la capacità di decidere, ma tutte le leggi sono un compromesso. Tra forze politiche; tra opinioni e culture differenti. E anche, non vi sembri una bestemmia, tra uomini e donne. Se gli uomini generalmente suppongono che la violenza sulle donne è opera dei “cattivi”, ogni donna offesa ha una sua storia di amore e odio, di ripulsa e ripensamento. Le linee di frattura tra le biografie femminili sono infinite.
Che può saperne la legge? Cercherà una mediazione a volte alta, altre poco decorosa tra l’immagine che ha della “vittima” e i codici (come accade per la querela irrevocabile in presenza di gravi minacce ripetute); tra il sentire comune e il diritto; tra i pochi soldi che ci sono e il dove investirli.
Certo, le parlamentari qualche idea in più potrebbero averla. Ma forse è troppo chiedere a rappresentanti istituzionali così lontane (con qualche eccezione, si capisce) dalla realtà.
Le obiezioni, i dubbi, le critiche vengono da altre parti. Nel mondo delle donne e non solo delle donne. Ida Dominjianni, Stefano Ciccone e Marina Terragni, Mariella Gramaglia, Concita De Gregorio, Chiara Saraceno, Alberto Leiss su questo sito abbiamo preso posizione. Evidentemente, non la pensiamo allo stesso modo tuttavia, con accenti differenti, poniamo degli interrogativi sapendo che nella violenza sulle donne c’è di mezzo la sessualità maschile. C’è un legame che, nascosto dietro la parola amore, non sopporta la libertà femminile.
Certo, se il decreto sul femminicidio è ciò che passa il convento (Letta-Alfano); se molte insipienti parlamentari se ne sono dimostrate entusiaste; se i centri antiviolenza hanno incassato l’assicurazione del governo di aiutarli economicamente, bisogna aver chiaro che una legge – anche la migliore e questa non lo è – non va alla radice del male.
Per questo non sono d’accordo con Elettra quando scrive che “ oggi la politica, che dovrebbe per suo mestiere e vocazione, costruire le condizioni di un altro modo di procedere nell’attività parlamentare, ha abdicato al suo ruolo, e questa è diventata la norma”. In Parlamento si possono ricercare accordi migliori ma altro è il lavoro da fare.
D’altronde, dipende dal lavoro che le donne hanno fatto, pensato, smosso, prodotto se oggi – diversamente dal passato – una larga opinione pubblica condanna la violenza sul corpo e la mente femminile. Questa opinione pubblica ha “scoperto” che il male si annida nelle famiglie, tra le pareti domestiche. Prodotto della cultura, oggi, finalmente, la violenza viene vista. E questo è un risultato.
Dunque, la battaglia politico-culturale deve avvenire (come già avviene) soprattutto fuori dal Parlamento là dove si tessono le relazioni tra uomini e donne; là dove sono le contraddizioni, gli inciampi, gli ostacoli. Siamo convinte con Elettra che il modello sociale e simbolico “patriarcale” non regge più? Le leggi possono registrarlo, ma il resto, quello che conta, riguarda le nostre vite.