Se fossi un critico musicale scriverei molto bene del Guillaume Tell – monstre andato in scena a Pesaro domenica 11, all’Adriatic Arena, secondo spettacolo in programma del Rossini Opera Festival. Monstre perché il direttore Michele Mariotti e il regista Graham Vick hanno messo in scena il testo originale e integrale: cinque ore di musica cantata in francese, che però si godono dalla prima all’ultima battuta. E monstre,nel senso della meraviglia, anche per l’ingegnosa sorprendente regia e scenografia: una unica scena bianca, ultrarazionale, sormontata dalla scritta ex terra omnia – a sancire il legame tra terra, natura e libertà. Ma con spazi, sipari, balconi, finestre, corde che hanno consentito moltissime invenzioni: le immagini delle alpi svizzere, il lago in tempesta, una barca sospesa che galleggia a mezz’aria, un’invasione di destrieri simil-veri, e altro ancora.
I costumi spostano dal medioevo a un tardo ottocento il conflitto tra gli oppressori asburgici e l’indomito popolo svizzero. Ma ogni tanto appare in scena una macchina da presa cinematografica e un set che evocano il Novecento, e alludono all’intreccio di piani temporali e sguardi diversi. L’ultimo capolavoro teatrale di un Rossini non ancora quarantenne viene esplicitamente “politicizzato”: Tell e i suoi giurano con Arnold stringendo fazzoletti rossi, sventolano bandiere rosse, e sul grande sipario grandeggia un pugno chiuso, anch’esso rosso.
All’inizio del terz’atto – quello cruciale della mela sulla testa del figlio di Tell, Jemmy – quando si descrive la villa con il tiranno Gesler, nobili, ricconi e le loro dame, e durano a lungo musiche da ballo normalmente tagliate, la regia dipinge tutta la stupida crudeltà degli oppressori contro malcapitati ballerine e ballerini tirolesi. Qualche signora e signore troppo “bene” nel pubblico si risente e urla “buu!”. Ma vengono soffocati dagli applausi.
Del resto il nevrotico Rossini non è stato un conservatore a modo suo molto rivoluzionario?
La prima parigina del Guillaume è del 1829, e l’anno dopo Parigi è sconvolta dalla rivoluzione che abbatte Carlo X. Il compositore dovrà fare causa all’amministrazione successiva di Luigi Filippo di Orleans che non gli aveva rinnovato il contratto, e la vincerà guadagnandoci anche un vitalizio.
La sua musica è meravigliosa. Io ci sento filtrata tutta la grande tradizione strumentale e operistica preromantica italiana, e ogni tanto si avverte una malinconica severità e soavità che fa pensare intensamente a Mozart. Chi se ne intende dice che nel Guillaume si annunciano Verdi e Wagner (il quale, a quanto pare, rese nel 1860 un sentito omaggio all’anziano musicista italiano ormai divenuto parigino).
Ho appena finito di leggere Un terribile amore per la guerra di James Hillman, e in quest’opera ho ritrovato tutto l’impasto psicologico – archetipico? – tra i sentimenti virili del coraggio, del desiderio amoroso, dell’impeto bellico e rivoluzionario. E dell’amore paterno e filiale. Non è certo il tempo e il caso, qui, di “rottamazioni”. Arnold, il secondo – ma in un certo senso primo – eroe del dramma, agisce per vendicare e ricordare il padre ribelle ucciso dagli oppressori. Nel finale dal soffitto della scena scende una grande scalinata scarlatta, a forma di piramide rovesciata, e il figlio di Tell sale i primi gradini. Tutti cantano all’ “horizon immense” della natura e della libertà. La musica si attorciglia in quell’incredibile crescendo armonico e timbrico che comunica davvero una forte sensazione conclusiva, positiva e definitiva.
Tutti molto bravi, secondo me. Direttore, coro e orchestra (del Teatro comunale di Bologna). I ballerini. E i cantanti (in particolare Marina Rebeka, Mathilde, e Nicola Alaimo e Juan Diego Florez, rispettivamente Tell e Arnold).
Un’ultimo pensierino, per quanto banale: non è questa l’Italia che dovremmo finalmente imparare a riconoscere e valorizzare?