Certo, sarebbe bello avere anche da noi una Angela Merkel che nel supermercato della stazione di Friedrichsstrasse (al centro di Berlino) compra aranci e limoni e fa la sua brava fila. Probabilmente, una foto così (con Merkel spettinata che si china per pagare alla cassa) sarebbe più risolutiva nei confronti dell’antipolitica dei depennamenti promessi (e non mantenuti) su stipendi, viaggi, trasferte, caffé e noccioline dei parlamentari italiani.
Il guaio è che se un segretario di partito, un ministro, un sottosegretario dei 100 e passa di questo governo, va in televisione (Bertinotti a Porta a Porta ha superato le settanta apparizioni), io telespettatrice finisco per pensare che in questo consista la politica: nella “passerella” contestata dal presidente della Repubblica. Vedere per credere: casta e privilegi compresi.
In fondo, a rovinare i parlamentari è soprattutto la loro esistenza (o sopravvivenza?) in quanto compagnia mediatica. Anche i magistrati compongono una casta però devono arrabattarsi come Woodcock per diventare famosi. Più “fortunato” il pm de Magistris (per il quale il ministro Mastella ha chiesto il trasferimento d’ufficio), sostenuto da cinquecento persone “né di destra né di sinistra” bensì “la prima generazione di sani qualunquisti” che sono scesi in piazza in sua difesa a Catanzaro.
Rappresenta una supercasta pure quella dei manager pubblici ma c’è qualcuno che sappia citare la composizione dei cda Eni, Sogei, Anas, Gruppo Poligrafico, Sace, Consip, Enav?
Comunque, a perdere la casta non può essere solo la sua presenza sul piccolo schermo. La rivolta, l’indignazione collettiva ha raggiunto livelli troppo alti. Si può spiegare l’esistenza dei trecentomila di Grillo e di quelli che spediscono fax di insulti al governatore della Liguria per aver guidato contromano tirando fuori un vecchio tesserino di parlamentare e di quelli che, via mail, minacciano Giuliano Ferrara o sbeffeggiano Antonio Polito, senatore della Margherita, dicendo che sono persone incattivite, frustrate?
Forse in grande misura lo sono. Però ripetere che il problema non sta tanto nelle pensioni dei parlamentari o nel caffé consumato alla buvette di Montecitorio, significa non aver capito che qui è in gioco uno scontro simbolico sulla politica. Che cos’è, come risponde alle aspettative, quale progetto propone per i rapporti tra individui.
Una volta la politica (a sinistra e a destra) prometteva moltissimo. Di liberare l’uomo dalle ingiustizie, dalle carestie, dalle epidemie. Una volta c’era la scienza e “le magnifiche sorti e progressive”. Una volta c’era il sogno americano: Paperon dei Paperoni e la sua corte.
Adesso, gli individui, ognuno di noi, è proprio solo. Non sa a che santo rivolgersi. L’unica soluzione consiste nel mettere su una comunità del “noi”. Noi che andiamo in piazza, noi che manifestiamo, noi che protestiamo, noi che stendiamo il lenzuolo bianco alla finestra, noi che accendiamo il lumino, noi internettisti, noi blogghisti. Simili gli uni agli altri, legati dalla stessa motivazione. Così ci ritroviamo in piazza a Bologna, chiedendo a una causa comune, per quanto fragile sia, di risolvere la nostra solitudine dal momento che non abbiamo una politica capace di salvare il valore delle relazioni tra le persone, tra donne e uomini, senza bisogno di nuovi enfatici e rischiosi “noi”.
In fondo è stata questa la pratica e la teoria di “noi” femministe. Ma quando vedo tante amiche accontentarsi di invocare il 50% di partecipazione a quella che ormai è stata definita una casta, quando osservo il loro silenzio (fa eccezione l’eroica Rosy Bindi) sul bruciante argomento all’ordine del giorno, mi cadono le braccia.
L’idea che un gravissimo deficit simbolico possa essere colmato schiacciando un solo tasto della calcolatrice mi ricorda un po’ quel tale che voleva salvarsi dal precipizio attaccandosi al proprio codino.