Pubblichiamo un intervento di Lea Melandri per La 27a Ora del Corriere della Sera, dove si è aperto un dibattito sull’editoriale degli economisti Alesina e Giavazzi sulla “questione femminile”.
Che si tratti di economia, di lavoro o di istituzioni politiche, la domanda è sempre la stessa: perché tante disuguaglianze tra uomini e donne, nell’occupazione, nelle carriere, nei ruoli decisionali, nonostante che “quando studiano -come si legge nell’editoriale di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (“La questione femminile”, Corriere della sera, 16.01.13)- le ragazze italiane sono più brave dei ragazzi in tutte le materie”? Altrettanto prevedibile è la risposta, per la quale in realtà non servono particolari competenze, ma solo l’attenzione a quello che capita ogni giorno nelle case e nella vita sociale.
Ma se sono due noti economisti a elencare i motivi di queste “differenze straordinarie”, forse è più facile risalire all’origine di quella che è ancora vista come una “questione femminile”, mentre dovrebbe essere ormai chiaro che stiamo parlando di un sistema produttivo, di un modello di sviluppo e di civiltà, che ha preso forma dalla visione del mondo di un sesso solo. Giustamente Alesina e Giavazzi scrivono che le ragioni della scarsa partecipazione delle donne al lavoro di mercato sono molto “più profonde” di quanto non faccia pensare la mancanza di asili nido e di altri servizi. C’è la “nostra cultura, che assegna alla donna il ruolo di ‘angelo del focolare’ e all’uomo quello di produttore di reddito”; ci sono gli interessi aziendali per cui, “al momento degli scatti di carriera spesso le imprese preferiscono gli uomini (…) perché sanno che in caso di conflitto fra esigenze famigliari e aziendali un uomo sarà più disposto di una donna ad anteporre le esigenze dell’azienda a quelle della famiglia”; c’è la “divisione dei compiti tra lavoro domestico e lavoro retribuito sul mercato” per cui all’interno delle case le donne sono occupate “quasi 80 minuti al giorno in più dei loro compagni”.
Partendo dal dubbio che le donne italiane non siano tanto felici di questo carico di responsabilità in più che impedisce loro di “essere promosse nel lavoro”, i rimedi che vengono prospettati sono quelli di chi, considerando evidentemente come valore primario il buon andamento dell’economia, si preoccupa di dare maggiore centralità al lavoro femminile, detassandolo, rendendo più flessibile il part-time ed estendendolo a donne e uomini, in modo da “riequilibrare i ruoli nella famiglia”. In questa descrizione dell’esistente, in cui si vedono agire uomini e donne in un rapporto “sbilanciato” di mansioni e di poteri, c’è un dettaglio che merita attenzione. L’aggettivo “nostra”, applicato alla “cultura” che viene messa in discussione, si riferisce inequivocabilmente al contesto italiano, al familismo e alla retorica maternalista, di cui sono portatrici spesso le donne stesse. Nessun dubbio che si tratti, più in generale, di un “noi” maschile, come lascerebbe invece intendere una divisione sessuale del lavoro che appartiene, sia pure in forme diverse, a tutte le civiltà finora conosciute, dove sono stati gli uomini ad avere i poteri decisionali.
Che l’economia e la politica non siano “neutre” e che l’ostacolo principale per le donne -non solo e non tanto per l’accesso a ruoli di potere, quanto alla libertà di esprimersi attraverso molteplici di manifestazioni di vita-, sia la delega che l’uomo ha fatto all’altro sesso dei bisogni elementari della sopravvivenza, è ciò che va dicendo da quasi mezzo secolo la rivoluzione culturale prodotta dal femminismo, dalle sue teorie e pratiche. A testimoniarlo sono gli scritti di economiste, sociologhe, filosofe, storiche, scienziate, letterate, ma anche le “piccole grandi storie” delle donne che hanno tentato di operare all’interno delle istituzioni pubbliche –amministrazioni, parlamenti, ecc.- “tutte intere”, portandovi cioè la consapevolezza che la quotidianità è un valore, la cura una responsabilità collettiva – non un destino “naturale” della donna e neppure una questione privata-, la persona, i suoi bisogni, il suo diritto alla buona vita, un “fine” in se stesso e non un “mezzo”per incentivare la produzione.
Se non fosse perché la dimensione utilitaristica è diventata il modello unico delle relazioni umane, e le sue categorie, il suo linguaggio il filtro attraverso cui nominiamo e interpretiamo la realtà, definire le donne un “capitale umano”, un “valore aggiunto”, una “risorsa” perduta per l’economia, dovrebbe farci riflettere su quale distorsione ideologica abbia segnato finora il rapporto tra i sessi. Fare figli e lavorare per la ricchezza della nazione non è forse quello che è stato sempre chiesto alle donne e su cui le donne stesse hanno fatto leva per legittimarsi una piena cittadinanza?
Tonina Santi -che ha appena pubblicato una raccolta di scritti, interviste, documenti, articoli di giornale, Costruire il futuro sul filo delle memorie. Gli anni della donne a Como (New Press edizioni, Cermenate(CO) 2012)- non è un’economista ma una ex-consigliera di parità della provincia di Como. La decisione di fare “uscire all’aria aperta” un’esperienza di vita e di lavoro, che come quella di tante donne finisce col restare un “oggetto seppellito” (V.Woolf), la definisce un “atto dovuto” – per“dare valore alle cose che facciamo senza costringerci a diventare ‘come un uomo’ per avere riconoscimenti”- e un modo di trasmettere alle generazioni più giovani la “presa di coscienza irreversibile” che a partire dagli anni ’70 ha cambiato la vita di tante donne. Su che cosa si debba intendere per “pari opportunità”, sugli ostacoli che stanno dietro le “discrimazioni” a cui vanno incontro le donne nella sfera pubblica, su quanto “spontaneamente” o sotto pressione delle aziende le donne decidano di ritirarsi dal lavoro dopo la nascita di un figlio, sull’esclusione o sul senso di estraneità che suscita in molte di loro la politica, Tonina Santi porta l’analisi lucida e profonda di un pensiero libero da stereotipi e luoghi comuni, capace di cogliere i legami tra ambiti da sempre separati e contrapposti: il privato e il pubblico, la cura e il lavoro, la famiglia e la società.
“Il prototipo del perfetto lavoratore, soprattutto se dirigente, è ancora quello del maschio, sempre disponibile, che non pone limiti di tempo al proprio lavoro. Il contraltare altrettanto ‘perfetto’ di questa situazione è ovviamente rappresentato da una donna, casalinga o lavoratrice, a cui questo lavoratore delega tutti gli impegni (compreso il suo ruolo paterno) e i problemi che non riguardano il lavoro.”
“Noi siamo entrate in un mondo disegnato e adeguato ai tempi e alle modalità relazionali degli uomini, a cui ci siamo dovute adeguare, sostenendo la fatica della doppia responsabilità famigliare e lavorativa … Le tante donne entrate nel mondo del lavoro, ed anche quelle che hanno fatto carriera, non sono riuscite ad apportare cambiamenti, ammesso che vi abbiano minimamente tentato. Perché è certamente difficile, ed anche coraggioso, sostenere la fatica di arrivare ad occupare posti di responsabilità, e insieme cercare di cambiare le organizzazioni in modo da creare un maggiore equilibrio tra esperienze differenti (…) Dovremmo consentirci il tempo di riflettere sulle nostre vite, per essere in grado di rappresentarci, anziché farci rappresentare, in modo insufficiente dalla politica odierna.”
“Donne e lavoro. Chi deve conciliare? Quale è il macigno da rimuovere? E’ l’idea che i figli siano solo un affare di donne, così che tocca alle madri destreggiarsi per conciliare lavoro e famiglia. Il mondo femminile è profondamente cambiato; il mondo del lavoro, organizzato da uomini per gli uomini, rimane rigido e quando è flessibile si traduce in precariato (…) C’è un punto di vista che occorre rovesciare, perché i figli in verità sono un affare della collettività tutta. E’un rapporto tra produzione e riproduzione che va ripensato, spetta a chi ci amministra, dallo Stato ai Comuni, conciliarsi con la famiglia, la maternità e il lavoro delle donne (…) L’attuale crisi occupazionale può rappresentare un’occasione per progetti che vadano oltre la visione della riduzione dell’orario come emergenza. Vi è per noi, più che per altri, la necessità di ristrutturare il tempo della nostra vita, di modificarne ritmi e valori, aderenti a modelli che sentiamo non appartenerci più. In una parola, si può pensare ad un tipo di vita che sappia armonizzare il mondo della produzione con la realtà sociale? (…) una politica globale del tempo ove si tenga conto che interessi vitali quale il lavoro, la cura delle persone, la vita affettiva, non devono essere eternamente in conflitto.”
Il racconto e la riflessione sulle esperienza concrete che le donne stanno facendo, con fatica ma anche con spirito creativo, nel quotidiano pendolarismo tra casa e lavoro extradomestico, è ciò di cui avremmo più bisogno per delineare quella che Tonina Santi ha chiamato un’ “ecologia del tempo”, un modello di civilizzazione che contempli, in forma non strumentale, le parole felicità, buona vita, benessere umano.