Le donne che hanno dato vita all’incontro di Paestum – dopo una discussione sul punto che ha visto anche pareri diversi -non hanno coinvolto esplicitamente uomini, anche se nella lettera di invito c’è un passaggio finale che sottolinea l’importanza decisiva di un mutamento nelle relazioni tra uomini e donne per costruire una politica diversa, valida per tutti e tutte, capace di andare alla radice del cambiamento del modo in cui si vive e si lavora: un cambiamento chiesto in modo sempre più forte dalla crisi (una “rivoluzione necessaria”, dice la lettera).
E c’è anche un riconoscimento di quanto comincia a cambiare nel modo di essere, pensare, agire da parte di alcuni di noi. Certo, questo cambiamento – si aggiunge, e lo penso anch’io – si manifesta in modo ancora del tutto insufficiente rispetto a tutto ciò che non va, anzi va molto male, a causa di un “ordine maschile” che resta determinante e per certi versi “dominante” nei luoghi del potere pur avendo perso quasi ogni credibilità e autorevolezza.
Nel dibattito pubblico, come di nuovo nell’ultimo rapporto Censis, è in primo piano il vuoto di “sovranità” e la crisi verticale della politica, ma i politici e gli intellettuali maschi che ne discettano sembrano restare ostinatamente ciechi rispetto al fatto che proprio di loro – di noi – del nostro sesso, qui principalmente si parla.
Penso dunque che a noi uomini converrebbe cercare un confronto serio con le idee e le pratiche che Paestum ha rilanciato: provo a farlo, e non solo perché nella lettera si cita anche Maschileplurale e la ricerca che con altri mi impegna nella rete e nell’associazione che questo nome richiama.
Qualche appunto, dunque, sui temi che la lettera pone.
1 – Quale fondamento della politica – All’inizio del testo si afferma un concetto che ritengo essenziale per capire la crisi profondissima che sta quasi annichilendo le forme tradizionali della politica democratica. Il femminismo – si ricorda – con la pratica del “partire da sé”, ha esercitato una critica radicale all’idea di un “soggetto politico omogeneo”, classe, genere, ecc. sui cui si basa anche la rappresentanza e la delega. Alla radice di un agire collettivo – si afferma – c’è prima di tutto la relazione tra singoli e singole. Sono da molto tempo convinto che qui c’è la invenzione decisiva per definire e agire una politica diversa anche da parte di noi uomini. Siamo forse nell’epoca in cui l’identità, il bisogno di riconoscimento, anche come base dell’azione politica non può più passare attraverso mitologie collettive e comunitarie (incluse quelle delle religioni storiche), ma dalle relazioni concrete tra singole persone, dal loro reciproco e differente riconoscimento. Certo vedendo tutta l’umanità singolare ma anche i contesti sociali, economici, di potere che queste relazioni ospitano. Io sono un uomo di sinistra, e osservo lo smarrimento profondo che segna ormai da tempo questo mondo: una parte della sinistra, dopo il crollo del “socialismo reale”, ha creduto di trovare una alternativa nelle mitologie individualistiche liberali, ma ha smarrito se stessa. Un’altra parte – specialmente oggi di fronte all’evidente crisi del liberismo – ritorna nostalgicamente al mito della classe (e a molto di quel che comporta in termini di organizzazione della società e dello stato). Oppure a concetti e miti tutto sommato affini, come quello della “moltitudine”. E’ un contro effetto della crisi. L’interrogativo che pongo è: in che misura noi – uomini e donne – che pratichiamo contesti di sinistra ci impegniamo per aprire un confronto e uno scontro su questo punto decisivo? E su questo quale scambio reale c’è tra noi?
2 – Economia, lavoro, cura – Ho partecipato in parte alla elaborazione e alle discussioni sulla “cura del vivere” che ha proposto il Gruppo del mercoledì. Non solo in termini di analisi e di teoria, ma anche per le esperienze concrete degli scambi tra uomini e donne a cui ho partecipato, penso che qui stia una leva linguistica e simbolica decisiva per favorire proprio l’approccio alla politica di cui parlavo prima. Certe formule – “partire da sé”, la “politica delle relazioni” – a volte vengono ripetute con scarsa efficacia comunicativa. Non vengono comprese, non entrano in risonanza con la vita e l’esperienza personale. Specialmente di noi uomini. Ma vedo che aumenta invece la consapevolezza maschile di quanto sia determinante per tutti il quotidiano lavoro di cura che tiene insieme le vite e le cose. Nelle coppie e in famiglia ma anche nei luoghi di lavoro, nei servizi, nella scuola. Una attività rimasta a lungo “invisibile” che oggi, proprio per la rivoluzione soggettiva fatta dalle donne, viene al centro dei vissuti consapevoli. E al centro degli effetti durissimi della crisi sul mercato del lavoro, sul welfare, quindi sulla quotidianità di singoli/e e delle famiglie. Rovesciare conflittualmente la cura significa muovere i sentimenti, i desideri, anche la rabbia e il dolore, che spingono a rovesciare una intera organizzazione produttiva e sociale irrazionale, che non si “cura” del senso di quello che si produce e si consuma, né del “primum vivere” delle persone, ma è a misura di chi ha più denaro e potere. C’è però una discussione da proseguire in modo franco, poiché esistono riserve sull’uso di questa parola-simbolo, sia tra le donne, sia tra uomini.
3 – Rappresentanza – Ho avuto l’occasione di discutere spesso nel tempo con le amiche della Libreria delle donne di Milano sulla questione della democrazia rappresentativa. Loro vedendone tutti i limiti e gli aspetti degenerativi, io a dire che è comunque il meno peggio prodotto dalle menti politiche maschili. Perché non c’è dubbio che, sia pure giunta tardi e a fatica al suffragio universale, di una invenzione e di una pratica maschile si è trattato e si tratta. Devo riconoscere, di fronte alla imbarazzante situazione attuale, che molte delle critiche femministe erano più fondate delle mie giustificazioni. E tuttavia, pur ritenendo che la politica, le idee e le pratiche capaci di determinare una vera alternativa allo stato presente delle cose non potranno nascere dai partiti e dalle istituzioni rappresentative attuali, ritengo che dello stato della democrazia – sicuramente per quanto riguarda noi uomini che ne siamo responsabili – non ci si possa disinteressare.
Il margine di decisioni che possono essere realisticamente assunte oggi in un Parlamento nazionale, in un consiglio comunale e regionale, è veramente ristretto. Ma può essere comunque non trascurabile per l’incidenza sulla vita delle persone, per gli spostamenti possibili a favore o contro gli interessi di chi ha meno reddito e meno potere. Basta pensare agli effetti di provvedimenti come quelli assunti da Fornero e Monti per le pensioni e il mercato del lavoro. Bisognerebbe saper approfittare pienamente della ondata di critiche – per lo più fondate – che investono partiti e istituzioni democratiche per spingere a una riduzione e semplificazione di questa macchina sproporzionata, per identificarne pubblicamente la funzione limitata ma non irrilevante, per costringerla a decidere soprattutto ciò che può favorire la più decisiva azione diretta da parte dei cittadini e cittadine in relazione tra loro. Resto perplesso per il favore che molte donne continuano a manifestare per la regola del 50 e 50, per la “democrazia paritaria”. Non escludo che sia una soglia necessaria di decenza. Ma sta diventando sempre più facile per gli uomini accettarla, in modalità che continuano a consentire una sostanziale rimozione del valore della differenza. Cioè del fatto che la politica cambia se cambiamo le relazioni tra donne, le relazioni tra uomini, e tra uomini e donne. Io penso poi che, per l’asimmetria delle nostre storie, le relazioni tra uomini (riconoscimento, trasmissione di autorità, violenza, potere) possano cambiare solo se contemporaneamente si tessono vere relazioni politiche stabili tra uomini e donne. Mettendo fine al separatismo maschile, non detto, che informa specialmente i luoghi del potere. Ma sarà possibile solo se un desiderio diverso verrà riconosciuto sia dagli uni sia dalle altre. Ma anche su questo vedo che esistono di fatto opinioni, valutazioni, esperienze diverse, tra uomini – pure tra quelli che almeno vedono il problema – e tra donne.
4 – Il corpo, la violenza – Un discorso credibile sui nessi tra desiderio e azione politica non può rimuovere la questione della sessualità. Dirò solo che nelle discussioni e reazioni provocate soprattutto dalle incredibili vicende di Berlusconi avverto molta ipocrisia e troppo moralismo. C’è qualcosa che non va in questo susseguirsi di proteste sdegnate e di silenzi reticenti. Lacan ha scritto uno dei suoi arditi e ardui testi di cui però basta il titolo: Kant con Sade. Da lì veniamo – noi uomini almeno – in questa parte di mondo e di storia. Certo parlarne sinceramente in pubblico è difficile. Forse impossibile. Però è necessario perché – altro punto probabilmente controverso – alla sessualità, al corpo maschile, è legata, credo in buona misura, l’origine della violenza. Violenza sessuale, violenza politica, violenza bellica. Qualcosa di cui dobbiamo finalmente provare – noi uomini – a rendere conto. Ho confermato questa opinione leggendo un vecchio articolo di Levinas sulla “filosofia dell’hitlerismo” (1934): il razzismo come forma ideologica di un “incatenamento al corpo” che riduce il dualismo tra io e corpo a un unico elementare biologico. Una cosa che scatena aggressività, violenza, guerra come eliminazione dell’altro, del diverso, del nemico. E mette in gioco non solo un’ideologia e una politica totalitaria, ma l’umanità stessa. A me pare che si parli qui – non del tutto consapevolmente – del corpo maschile. Per elaborare il rischio di questo incatenamento biologico – probabilmente sempre in agguato -per il filosofo è necessaria una dialettica liberatrice tra “spirito” e corpo. Forse per le donne questo benefico dualismo è invece già iscritto nella biologia del corpo materno, e ciò le mette di più al riparo dagli eccessi di astrazione che perseguitano noi maschi.
Tornando solo per un attimo alle avventure del Cavaliere, vorrei chiarire che non penso abbiano a che fare direttamente con Sade e tantomeno con il nazismo (anche se qualcuno si era spinto a evocare, direi a sproposito, le “120 giornate di Sodoma”). Piuttosto la sua è una messa in scena spettacolare e persino malinconica, grottesca, del fallimento di una certa declinazione, assai trasversalmente diffusa, dell’eros maschile. Non è solo un suo problema più o meno patologico. E’ un’altra delle verità scandalose che ci ha comunicato, nel suo modo tanto importuno e inopportuno. Non dovremmo censurarla.