Confesso di provare un certo imbarazzo a occuparmi dell’argomento dalla posizione di “cultrice della materia” quale sono. Il mio sapere sta semplicemente nel paio di libri scritti, in alcuni articoli sparsi, in saggi corposi: roba seria ma non certo di grande divulgazione. Tant’è che corro continuamente il rischio di allontanarmi dal senso comune e di apparire bizzarra con le mie idee. Mi sono occupata di rapporti tra il femminismo degli anni Ottanta e le coeve organizzazioni delle sex worker italiane e straniere, di mercato e di legge. Quindi: niente racconti di storie dai marciapiedi, niente filippiche contro i clienti, niente denuncia dell’“indegna schiavitù”, come le femministe dell’800 impegnate nella lotta alle case di tolleranza gestite dallo Stato chiamavano la prostituzione, né denuncia delle odierne schiavitù sessuali, che pure ci sono, consistenti e in continuo aumento, come ha scritto – appunto – Isabella Rauti. Il mio è uno sguardo freddo. Penso, per esempio, che sia stato il diluvio immigratorio a spingere molti paesi europei, (tranne il nostro), a riformare le vecchie regole sulla prostituzione in modo da spostarla tutta o quasi tutta al chiuso; e credo che questo sia stato l’unico modo per “fare fuori” le straniere clandestine. Il che è avvenuto, e avviene, non già in base alle leggi sugli scambi sessuali a pagamento bensì in base a quelle sull’immigrazione, molto più severe di quanto non siano, finora, le nostre. Quindi, paesi come la Germania, l’Olanda, il Belgio, la Svizzera, la Spagna (che però fa caso a sé) hanno assimilato le persone prostitute a lavoratori autonomi o dipendenti che possono “adescare” i clienti mettendo un annuncio su un giornale o su internet e lavorare in proprio (basta che non disturbino la pubblica quiete), oppure che possono incontrarli nei sex club e nei bordelli legali, gestiti da imprenditori del settore. Lo Stato entra poco nel commercio: non impone le visite sanitarie a chi ci lavora, non mette bocca sugli accordi stipulati se non per controllare che non riguardino persone straniere senza i documenti in regola e per esigere le tasse, tanto dai gestori quanto dai lavoratori. Come corollario c’è stata, e permane, la chiusura progressiva dei “quartieri a luci rosse” per restituirli al normale mercato immobiliare. Le vetrine di Amsterdam sono quasi sparite, idem l’agglomerato di San Pauli di Amburgo, nonché la maggior parte dei distretti del sesso attira-turisti. Il commercio di strada, dove c’è, è ordinato in base a leggi degli enti locali. Ma chi si prostituisce fuori dalle zone deputate lo fa a rischio di sanzioni pepate e, qualora si tratti di stranieri clandestini, paga con l’espulsione.
Questo per dire, e non sembri cinico, che di fronte alle esigenze d’ordine per tutelare in primis i cittadini dal non subire la prostituzione sotto casa, la salvezza delle prostitute dalla schiavitù passa in secondo piano. Tanto è vero che le organizzazioni, finanziate anche dalla Comunità Europea, impegnate a liberare le prostitute sottoposte a tipi di sfruttamento più o meno criminali, criticano le nuove forme di regolamentazione perché hanno peggiorato le condizioni delle irregolari, tutelate come sono solo dalle leggi sulla tratta o dai permessi di soggiorno per motivi giudiziari. Queste misure, però, possono salvare qualcuna, forse molte, ma non certo la maggioranza delle donne ai margini del consorzio civico. A dirla chiara e provocatoria: solo una sanatoria (ma non una soltanto, bensì una serie) potrebbero affrancare le schiave, le quali se fossero tutte regolarizzate sarebbero messe in messe in condizione – anche con l’ausilio di poderosi interventi sociali – di scegliere: lasciare il mestiere o continuare a esercitare nelle strutture deputate, al chiuso o all’aperto che siano. Ma è una provocazione, appunto, perché è impensabile che qualcosa del genere possa accadere proprio a partire da quei paesi nei quali l’ordine dato, per quanto imperfetto, rassicura coloro che con la prostituzione non vogliono avere nulla a che fare. Figuratevi in Italia. Le prostitute come le badanti? In realtà sono donne accomunate dallo svolgere un lavoro di servizio. Ma ai più si drizzano i capelli in testa anche al solo pensarci.
Eppure è proprio da noi che politiche e politici, con differenziati gradi di responsabilità all’interno della maggioranza e dell’opposizione, sono chiamati a un’occasione storica: dopo mezzo secolo possono mandare in soffitta la Legge Merlin. La quale, a causa della super inerzia riformatrice che ha caratterizzato il nostro paese in questo campo, è diventata la meno amata dalle italiane e dagli italiani. Cosicché la mancanza di decisione ha contribuito a inasprire i rapporti di convivenza e ora bisogna correre (letteralmente) ai ripari.
(18 giugno 2008)
L’irresistibile ascesa delle trans
(da Sesso al lavoro, pag 105)
Nei commerci sessuali come in quelli sociali agisce, non da oggi, un’autoreferenzialità tra gli uomini che non chiamerei omosessualità ma monosessualità, caratteristica tipica e propria della differenza maschile.
Se oggi ci accorgiamo che l’«oggetto degradato» del desiderio maschile può essere
anche un uomo/donna, degradato-desiderato perché uomo, abbiamo un elemento nuovo che svela qualcosa che già c’era un dato in più per spiegarci la ragione prima (o ultima) della prostituzione: l’attrazione degli uomini per le creature che il suo desiderio può manipolare.
In questo senso l’attrazione dei clienti per le transessuali è un’evoluzione in continuità, e non in controtendenza, con la tradizione. L’eterno femminino della prostituta, infatti, altro non è che un camuffamento (una «messa in scena», dicono le dirette interessate) della femminilità ad usum di un rapporto paritario, «tra maschi». Cliente e prostituta sono, infatti, legati da un tacito, reciproco accordo.
Lui e lei (o lui e lui, o lui e lui/lei), nel sesso commerciale, contrattano soldi e sesso per vicendevole utilità, come da sempre solo gli uomini, tra loro, sanno fare.
La prostituta, infatti, figura simbolica, al di là del sesso incarnato, più che mamma cattiva, è compagna di sesso ideale perché, appunto, è una donna tanto ambigua da poter essere anche un uomo, che racconta e comprende «come solo un altro uomo può fare»; perché si presenta all’appuntamento del sesso come una donna spogliata di alcune caratteristiche femminili essenziali: non ha le mestruazioni, non corre pericolo di gravidanze. Queste osservazioni sono di Beatrice Faust che ha studiato la figura della pornoattrice20 indicando nella sua sessualità esibita e libera dai normali condizionamenti femminili gli elementi che la rendono complementare, nel senso di simile, all’uomo. Inoltre, aggiungerei, la prostituta è emancipata economicamente, «maschile», se così si può dire, anche in questo.
Le prostitute hanno sempre avuto una capacità superiore a quella delle «altre» donne di incamerare reddito. Che non vuol dire riuscire poi a godere dei soldi guadagnati, perché spesso c’è lo sfruttamento e talvolta il marito-fidanzato che sta sul collo. Resta il fatto, comunque, che il denaro, nel sesso a pagamento, è il medium di un incontro tra due individualità libere da aspettative e ruolizzazioni. «Tu sei lo specchio dell’amore per me stesso», sembra dire lui a lei nell’amore comprato. «Io prendo le sembianze che tu vuoi per restituirti l’immagine di te che tu desideri», sembra rispondere lei. Inquesto senso ogni prostituta, al lavoro, è sempre e comunque un travestito.
Roberta Tatafiore, Sesso al lavoro. La prostituzione al tempo della crisi, a cura di Bia Sarasini Il Saggiatore, 192 pagine, 10 euro