E così il nuovo presidente francese, il macho che più macho non si può, l’“amerikano”, il ministro-poliziotto, quello che aveva detto “ci ha rovinato il ‘68”, il nuovo mito della destra ( e molta sinistra) europea, quello che ha battuto Ségolène Royal, proprio lui, ha fatto un governo bisex. Sette ministre su quindici, e non ministeri simbolici. Tanto per sminuire vengono chiamate “sarkozettes”, ma a guardare le biografie sembrano signore tutt’altro che decorative. Basti pensare alla ministra della Giustizia, Rashida Dati, magistrata, figlia di immigrati maghrebini, undici fratelli. Una vera “eroina dell’integrazione di successo” (Domenico Quirico, La Stampa, 19 maggio), “la personificazione dell’american dream versione francese” (Il Foglio, 22 maggio). Ma quando su di lei malignano, risponde pronta: “Io non sono l’araba di servizio”.
Qui da noi, tutti, o quasi, a complimentarsi. Sandro Bondi promette: “quando torneremo al governo metà dei ministeri saranno delle donne, valore aggiunto della politica”. Aggiunto? Ipocriti, commenta sferzante Gian Antonio Stella sul Corriere della sera (20 maggio), pronti a dire “che belle le donne degli altri” e poi non avere mai il coraggio di un gesto.
Nel primo governo Berlusconi c’era stata una donna sola: Adriana Poli Bortone. Nel secondo e terzo le donne erano diventate due (Letizia Moratti e Stefania Prestigiacomo).
E Prodi? Tante promesse, ma poi, al dunque, sei ministre su ventisei e quasi tutte senza portafoglio. E il Comitato promotore del Partito democratico? Avevano detto cinquanta e cinquanta, ma nella migliore delle ipotesi le donne saranno il 30 per cento (L’Unità, 22 maggio).
“Non c’è paese al mondo –scrive Stella- che abbia assistito negli ultimi anni a un tormentone sfacciatamente bugiardo sulla donna in politica quanto il nostro”. Lo sappiamo che non basta un certificato ginecologico per femminilizzare un governo (lo aveva scritto Anselma Dall’Olio su Grazia, qualche tempo fa, a proposito di Ségolène), ma il fatto che la petite différence sia ben visibile nei luoghi dove si decide vorrà pur dire qualcosa.
Le donne di sinistra paiono però fare fatica ad ammetterlo. Fa eccezione Ritanna Armeni che su e-polis (19 maggio) riconosce la novità e mette in collegamento la famiglia plurima (o “allargata”) di Sarkozy, l’immagine di Ségolène “che combatte fino all’’ultimo la sua battaglia” e la nomina delle sette ministre. Ci sarebbe stata la decantata scelta, senza quell’esperienza familiare e senza l’esempio della sfidante? E senza il ’68?