Può anche darsi che sull’articolo 18 si sia condensato un accumulo ideologico, cioè una somma di opposte esagerazioni sulla reale portata economica della norma, sulla quale si innalzano strumentalmente bandiere con diversi significati. Monti si presenta come colui che rompe le troppe “rigidità” del mercato del lavoro italiano, e si fregia dell’aver interrotto la concertazione, prassi aborrita dai teorici neoliberisti che sul “Corriere della Sera” gli pungono i fianchi.
D’altra parte Fiom e Cgil impugnano l’articolo 18 come il manifesto essenziale della difesa dei diritti del lavoro, mentre la realtà quotidiana delle fabbriche e degli uffici è che di questi diritti da molto tempo si fa strame. Basta pensare non solo all’esercito di precari in qualche modo ufficializzati dalla congerie di contratti e contrattini inventati negli ultimi decenni, ma alla massa di donne e uomini che lavorano in nero, al di fuori di qualsiasi regola.
Non so se alla rottura si sia arrivati per un difetto di coesione tra i sindacati, o per una forzatura da parte del governo. Propendo per questa seconda ipotesi. Monti e Fornero potrebbero però aver commesso un errore grave. Al di là di una certa soglia le forzature ideologiche sull’articolo 18 si trasformano in un valore simbolico, e allora le cose cambiano.
Lo ha detto un sacerdote (Giancarlo Maria Bregantini, capo commissione Cei per il lavoro) e lo ha ripetuto a suo modo anche Bersani. Se si imbraccia come un trofeo una norma che rende “monetizzabile” il licenziamento di una persona, se passa l’idea – teorizzata e praticata nei fatti da tanta cultura “capitalistica” – che il lavoratore è una merce come un’altra, non ci potrà che essere una reazione dura da parte di un mondo che non è riducibile a certi estremismi di sinistra.
Ha fatto scandalo – e per motivi più che giusti in un paese che ha vissuto tanti delitti terroristici perpetrati in nome della difesa del lavoro – la foto con Diliberto accanto alla signora con la maglietta “Fornero al cimitero”.
Ma ascoltiamo che cosa dice l’amica della signora – la quale protestava in piazza perché il marito si è visto rimandare di alcuni anni il pensionamento ormai prossimo – che indossava una maglietta rossa con scritta molto meno minacciosa : ““Senza stipendio, senza pensione, grazie Fornero”. E’ una lavoratrice Ibm che ha accettato l’accordo per uno “scivolo” verso la pensione e che ora rischia di rimanere a terra (pare che altre 350 mila persone, molte di più di quelle in un primo tempo calcolate dal governo, siano in condizioni simili).
“Mi fanno ridere – dichiara alla Repubblica a proposito della maglietta dell’amica – quelli che parlano di istigazione alla violenza, noi siamo gente che va a volto scoperto, che ha sempre pagato le tasse, e che nonostante questo prende sempre le botte. La vera violenza è in chi decide delle nostre vite nel totale disprezzo di quel che ci accade”. E ancora: “Io ho conosciuto qualcuno su Facebook, nel gruppo “Giulemanidallepensioni”. Parliamo di come ci sentiamo, della rabbia che proviamo. Non dormiamo più la notte, molti vanno avanti ad ansiolitici. Spesso ci siamo detti che non avremmo mai immaginato di provare sentimenti così forti: un tale disgusto. E odio, sì. Odio. Ma sono loro che fanno di tutto per farsi odiare. Ha visto come si presentano? Scortati, cordoni di polizia, camionette. I reali scandinavi possono andare tra la gente in bicicletta. Se loro hanno paura è perché sanno bene quanta rabbia generano le decisioni che prendono sulla pelle della gente”.
Sono frasi sulle quali tutti, da Fornero a Camusso, Bersani, Monti ecc. dovrebbero meditare.
Marina Terragni sul suo blog (La solitudine di Susanna) si è rammaricata che la presenza di tre donne – Camusso, Marcegaglia, Fornero – non sia riuscita a far prevalere le ragioni di una intesa. Soprattutto nella trattativa non è entrata per nulla “la lingua delle donne”. Vale a dire il linguaggio che nel lavoro non vede solo orario e salario, o tutt’al più l’esigenza di “conciliazione” tra produzione e welfare. Ma vede la continuità e le contraddizioni delle vite, femminili e maschili, che assicurano l’economia dei prodotti, dei servizi, nel mercato, e l’economia domestica della riproduzione e della cura, in una sorta di altro mercato parallelo.
Non basteranno certo per rompere le barriere – anche se sono una cosa non del tutto trascurabile – gli impegni per brevissimi congedi di partenità da imporre ai maschi e nuove norme sui licenziamenti “in bianco”.
E’ che questa lingua, questa cultura diversa e davvero radicalmente alternativa all’idea dominante di mercato e di stato, non appartiene ai “tecnici”, ma nemmeno ai sindacati e ai partiti e movimenti vari della sinistra.
Il conflitto che ora si è riaperto sul tema del lavoro sarà un’occasione almeno per rifletterci? O prevarrà la rassegnazione, se non la stupidità della violenza?