Dopo il convegno milanese del 18 febbraio, di cui parla qui Letizia Paolozzi (vedi anche l’intervento di Lea Melandri), il confronto sulla “Cura de vivere” si sposta lunedì 5 marzo nel pomeriggio a Napoli, dove si svolge un convegno alle ore 16.30, presso il Protomonastero delle Clarisse Cappuccine “S.Maria in Gerusalemme” in Via Luciano Armanni, promosso da Anna Maria Carloni e Franca Chiaromonte. Sono previsti tra gli altri interventi di Anna Donati, Luisa Cavaliere, Valeria Valente, Maria Luisa Boccia, Franco Monaco, Alberto Leiss. L’articolo di Paolozzi è anche sul sito Zeroviolenzadonne, che ospita numerosi altri interventi sul tema.
Con la Lud (Libera università delle donne), la Libreria delle donne di Milano, Leggendaria, in una bellissima sala dell’Unione femminile nazionale, si discute della “Rivoluzione possibile. Cura/lavoro: piacere e responsabilità del vivere”.
Sul lavoro molto il materiale accumulato. Sulla cura, noi che ci siamo chiamate gruppo delle femministe del mercoledì, abbiamo provato a rovesciare il discorso, a cambiare lo schema. Guardando alla nostra esperienza e a quella delle altre, si sono indebolite le catene di oblatività, dedizione che pure esistono.
Volevamo scuotere la sicurezza, molto maschile, molto di sinistra, secondo la quale il lavoro della produzione in cambio di reddito procede separato da quello riproduttivo, relazionale. Quasi che il lavoro del vivere, o meglio, la manutenzione della vita, sia invisibile, residuale, non quantificabile. Una sorta di autosfruttamento affettivo, rincarano molte donne, cresciute a pane e emancipazione, che della cura pensano tutto il male possibile. Giusto essere diffidenti ma senza buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Alla fine, il progetto “contro” la cura si può riassumere nella creazione di posti di lavoro salariato (traduzione: per la valorizzazione del capitale). Di conseguenza, invece di confliggere per organizzare in modo diverso tempi e modi del lavorare, eccoci tutti (e tutte) in fila a sostenere il provino di “Tempi moderni”.
Non meravigliatevi. La crisi è anche questo, l’ennesimo tentativo di espellere la cura dal lavoro. Secondo questa versione, ci sarebbero nel mondo solo rapporti strumentali padroni-operai; sfruttatori-sfruttati; neri-bianchi; maschi-femmine. Come se il mondo, a Zuccotti Park oppure al Valle occupato, poggiasse su un vuoto di relazioni. E nessuno avesse interesse a prendersi cura delle relazioni.
Certo, una volta messo a fuoco il problema, dobbiamo combattere un simile strabismo indicando delle soluzioni, sempre revocabili, discutibili, provvisorie. “Pensare in azione”, ovvero muoversi con una pratica politica.
Compito non lieve. Giacché sono pochi i maschi che hanno da raccontarci esperienze di cura. Pochi gli economisti capaci di fare proposte. Pochi i politici, gli aficionados dei beni comuni, o del comune o del potere costituente e compagnia cantando, che guardino alla cura andando al di là del proprio naso.
Inoltre, nelle relazioni familiari (ma anche nella polis, nella comunità) l’idea della cura ha prodotto un mare di retorica intorno al materno che ha finito per invadere il discorso pubblico, le arti visive, la letteratura (da Verga a Gadda), i consumi, la pubblicità, la canzonetta.
Peraltro, il posto goduto dalla madre nell’esistenza simbolica della famiglia le ha conferito un’autorità alla quale sono in molte a non voler rinunciare: non intendono cedere quel tanto di potere materno e domestico stretto nelle loro mani.
Molte sono le contraddizioni della cura. A partire dalla parola stessa. Eppure “il lavoro di cura come destino obbligato delle donne non è più l’esperienza corrente, anche se non nello stesso momento in tutte le parti del mondo” (scrivono le organizzatrici dell’incontro tenuto a Milano sabato 18 febbraio). Proviamo a svincolarla (verbo usato da Lea Melandri nell’incontro) dagli appesantimenti. Bisogna aprire dei conflitti. Pretendere dei riconoscimenti. Benché le soluzioni non siano a portata di mano.
Allora, perché non pensare 1) a una redistribuzione di ciò che lo Stato ha recuperato dall’evasione fiscale e dall’innalzamento dell’età pensionabile femminile (da indirizzare a uno specifico welfare – la casa, etc.- per i ragazzi, le ragazze), a forme di risarcimento per chi – donna o uomo che sia – si fa carico degli anziani, dei più fragili?
Perché non immaginarsi 2) una nuova specie di servizio civile (per l’ambiente, ma non solo)?Perché non pretendere 3) una migliore organizzazione del lavoro? Leggendo l’invito alla prossima Agorà milanese (lunedì 27 febbraio, e poi riunioni ogni mese) si capisce che bisogna recuperare flessibilità negli orari di lavoro, immaginare un welfare meno rigido, che oltre ai numeri tenga presenti le persone, i bisogni e i desideri degli uomini e delle donne (che non sono gli stessi). Perché non 4) cumulare ai contributi versati quando si è lavorato quelli figurativi del periodo in cui ci siamo trovate a svolgere una funzione riproduttiva della vita? Eppure io mi sono occupata di crescere mio figlio e, se non sbaglio, quel famoso valore sociale della maternità è un debito dello Stato nei miei confronti.
Oggi possiamo ripensare alla cura come strategia innovativa dell’esistenza, qualità del vivere nella complessità e del convivere nelle relazioni, compresa la politica che oggi provoca solo moti di ripulsa per l’incuria che la sta travolgendo.
La possibilità di vivere in una società solidale significa essere disposte a agire, pensare, sentire per trovare delle strategie per cambiare in meglio la nostra esistenza. Mi sono convinta che la cura faccia parte a pieno titolo di queste strategie.