Sulla guerra ha ancora una volta detto bene il Papa (spero, e vorrei saper pregare, che guarisca). Il conflitto in Ucraina che ha compiuto il terzo anno di carneficine e distruzioni assurde è una cosa «dolorosa e vergognosa per l’intera umanità!». E non ha dimenticato tutte le altre guerre, a cominciare dagli orrori tra Israele e Palestina.
Ieri sulla Stampa Massimo Cacciari ha stigmatizzato la “ferocia” e le “anti-verità” di Trump, a proposito dell’Ucraina e della deportazione dei palestinesi da Gaza per realizzare nella loro terra un mega-business balneare made in Usa. Una «indecente follia, su cui non mi pare – ha scritto – che i leader europei abbiamo speso le parole di ribrezzo che avrebbe meritato».
Dice poi cose condivisibili sul fatto che, paradossalmente e tragicamente pensando alle vittime, per risolvere il conflitto in Ucraina ora si torna “al punto di partenza” del 2014, e l’Europa ha l’ultima chance di dire e agire qualcosa di sensato se vuole esistere ancora.
Da parte di chi ha scommesso, sulla pelle degli ucraini, su una sconfitta della Russia (impossibile a meno di scatenare una guerra mondiale dagli esiti incerti, e forse esiziale per tutti) ora si invoca una pace “giusta”. E su questo binomio bisogna certamente riflettere e discutere.
La prima cosa che mi viene da dire è che la pace è intanto “giusta in sé”, perché mette fine alla mattanza di chi si combatte a morte senza nemmeno conoscersi e dei civili inermi. Poi certo si tratta di capire in che modo possono essere risolti i conflitti all’origine del folle e criminale ricorso alla guerra.
Leggo sulla Domenica del Sole 24 ore le recensioni di due nuovi libri sulla guerra (Umberto Curi, Padre e re. Una filosofia della guerra, Castelvecchi, 2024, e Gianluca Sadun Bordoni, Guerra e natura umana. Le radici del disordine mondiale, Il Mulino, 2025). Si parla di una “razionalità” della guerra e di una sua inevitabile, eterna appartenenza alla “natura umana”. Non è un caso che Francesca Rigotti, recensendo il secondo testo, osservi come si scriva sempre di uomini, mentre le donne sono assenti o “sussunte” nell’”uomo” in quanto universale per “umanità”. Lei cita i testi sull’Iliade di Simone Weil e Rachel Bespaloff.
E si potrebbero citare anche i testi della Goettner-Abendroth sulla nascita del patriarcato (e della contestuale affermazione generalizzata della guerra), o di Graeber e Wengrow (su una reinterpretazione della “storia dell’umanità” in cui sono già state possibili alternative sociali al dominio dei poteri violenti e armati).
Ma guardiamo bene che cosa emerge oggi sempre più apertamente dallo scontro tra le “post-verità” e le “anti-verità” delle propagande cangianti che arrivano dal cuore dell’Impero americano in crisi. Si vede finalmente che tanto in Ucraina quanto, e forse ancora di più in Russia, la renitenza e la fuga dalla guerra coinvolge non solo le donne che scappano all’estero con bambini e nonni, ma anche sempre di più maschi che disertano.
Dunque è possibile rifiutare la guerra alla radice.
Cito una frase ascoltata da un ex militare israeliano, Uri Noy Meir, dell’associazione Israelo-Palestinese “Combattenti per la pace”, all’incontro su “maschilità e guerra” di cui ho già parlato su queste pagine: uscire dalla fascinazione perversa della guerra non è facile, “si preferisce il diavolo che si conosce invece di affrontare l’ignoto”. Cambiare è doloroso perché significa fare i conti con l’orrore, anche quello che ci attraversa. Ma è possibile.
Qualcosa che ci riguarda tutti. Anche se crediamo di non indossare una uniforme.
Non è questa, prima di tutto, la strada da percorrere per arrivare a una pace “giusta”?