Pubblicato sul manifesto il 17 dicembre 2024 –
Mi ha fatto un certa impressione ascoltare la conclusione del comizio di Giorgia Meloni all’incontro di Atreju: pur lamentando un mal di gola non esitava a lanciarsi in acuti strozzati per affermare retoricamente che “la storia è fatta dalle persone che hanno avuto il coraggio di presentarsi alla chiamata della storia”. Cosa che riguarda evidentemente il pubblico plaudente, il suo partito e gli alleati della destra al governo. Ma soprattutto lei e la “tradizione” di giovanili amicizie che per una trentina di anni ha avuto nella favola di Michael Ende, Una storia infinita, un riferimento simbolico e un luogo di incontro per un certo modo di intendere e di vivere la politica che alla fine li accompagna al governo di questo paese.
In un’ora evidentemente carica di destino, giacché la conclusione della frase citata afferma che la “chiamata” è giunta quando all’Italia spettava di riprendere “il posto che le spettava nel mondo”. Fatto già dato per certo.
Così, forse cedendo al rimasuglio di un antico tic cronistico, mi sono andato a ascoltare tutto l’intervento. Non starò a ripetere osservazioni già avanzate da chi la cronaca la fa sul serio, ma annoto solo qualche impressione. Ciò che colpisce di più, forse, non sono nemmeno le parole, ma la fortissima oscillazione del tono della voce dai volumi moderati e colloquiali a quelli ipertesi quando si attaccano il più sprezzantemente possibili gli avversai politici, oppure si sottolinea, appunto, la assoluta straordinarietà dell’attuale impegno di governo.
Siamo, nel mondo, in un momento tra i più difficili dalla fine della seconda guerra mondiale: questo è probabilmente vero. E il riferimento alla storia torna in altri due passaggi.
La sfida è difficile, difficilissima, ma gli italiani devono ritrovare fiducia in se stessi, non solo perché la loro patria oggi “corre e stupisce” – e certo non per solo merito del governo ma degli italiani stessi – ma perché sempre per migliaia di volte hanno saputo “rialzarsi” da “rovinose cadute”. E qui un non troppo breve elenco degli alti e bassi di una vicenda almeno bimillenaria: dal trionfo e dalla caduta dell’Impero Romano alla vittoria del Cristianesimo, dalle scorrerie dei barbari alla civiltà medievale delle cattedrali e abbazie, con il protagonismo di città come Genova, Venezia, Pisa e Amalfi, quindi il Rinascimento con le sue glorie artistiche, e poi quell’Italia sempre divisa e preda di dominatori stranieri vede l’entusiasmo dei giovani che animano il Risorgimento fino all’unità del Paese. Anche se poi il panorama si rabbuia con le due guerre mondiali e “l’avvento dei totalitarismi”… qui ci si potrebbe aspettare qualcosa di più aderente all’esperienza delle generazioni più vicine a noi, ma non ci sorprenderemo che le parole “fascismo” e “resistenza” siano invece del tutto rimosse.
Si salta direttamente ai “nonni” che negli anni ’50 e ’60 “si rimboccavano le maniche e davano vita al boom”.
Un po’ più avanti, dopo la durissima polemica conro Prodi, ecco l’affermazione rivolta a “tutti i patrioti” che si è “ancora dalla parte giusta della storia!”. Non so se valga insistere nel chiedere chiarezza su questa storia della parte giusta della storia, oppure scacciare il malumore immaginando Giorgia Meloni nei panni di Napoleone a Jena, con il vecchio Hegel che esclama: “Ho visto lo spirito del mondo passare a cavallo”.
Una frase del/della presidente del Consiglio andrebbe però meditata anche dalle nostre parti: “nessuno che non sappia guardarsi alle spalle, guardarsi indietro, può avere la pretesa di guardare avanti”. Certo, senza censure, rimozioni, e soprattutto eccessi retorici. In agguato è l’esito irrevocabile del ridicolo.