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In una parola / Bruno, e il gioco della vita

29 Dicembre 2024
di Alberto Leiss

Pubblicato sul manifesto il 24 dicembre 2024 –

Stasera è Natale. Da qui farei auguri sinceri a tutte le giovani persone che cercano di realizzare almeno una parte di sé nel lavoro che cercano, trovano, fanno. E magari si chiedono se ha un senso anche per altri. E quale senso sia. Auguri anche a chi sulle realtà tanto diverse chiamate “lavoro” indaga, studia. Nei giornali, nelle Università, nei sindacati, nella creazione artistica, nelle associazioni che si interessano di come vanno le cose nel mondo.
Nei gruppi femministi che da decenni cercano di indicarci il lavoro indispensabile, anche se non retribuito, nella cura che ci fa vivere e sopravvivere tutti.
Infine approfitto del poter scrivere liberamente qui facendo auguri a tutte le persone che hanno conosciuto Bruno Ugolini e gli hanno voluto bene.
Bruno è stato un collega e amico dell’Unità che aveva una passione fortissima per il movimento operaio e per l’idea che il lavoro potesse essere una leva per la libertà (idea condivisa profondamente con Bruno Trentin). Martedì scorso a Roma è stato premiato il film che ha vinto un concorso organizzato nel nome di Bruno da Striscia Rossa, sito diretto da Pietro Spataro e ideato e fatto da numerosi giornalisti della vecchia Unità, tra cui proprio Ugolini. Hanno sostenuto l’iniziativa anche la Fondazione Gramsci, l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, la Cgil (ne ha scritto Ella Baffoni su Striscia Rossa).
Il film che ha vinto si intitola Life is a game, la vita è un gioco (https://openddb.it/film/life-is-a-game/): i due giovani autori Laura Carrer e Luca Quagliato, hanno costruito un racconto a base di interviste raccolte tra un gruppo di riders in varie città europee e provenienti anche da paesi non europei. I volti dei protagonisti sono sempre ripresi in primissimo piano, e le interviste sono spesso interrotte da animazioni grafiche che restituiscono la realtà di questo lavoro, con una colonna sonora molto interessante e molto (troppo?) fragorosa.
Colpiscono alcune delle prime frasi ascoltate. Un giovane uomo italiano racconta che cosa pensa il suo bambino del lavoro che fa (“papà è un motociclista!”). Un altro parla invece con soddisfazione del figlio che “ha capito prima di me che cosa vuole fare nella vita, quali sono i suoi sogni da realizzare”. Un terzo rider dice in francese che in questo lavoro c’è “un lato romantico… siamo moderni cavalieri, un po’ ribelli… e l’azienda gioca su questo per fare comunità, e farci lavorare di più”. Una ragazza afferma senza incertezze in spagnolo che si “sente libera, perché non c’è sopra di me qualcuno che mi comanda”.
Siamo dunque di fronte a una “normalità” non del tutto negativa?
Le sequenze in animazione rappresentano da subito una realtà assai diversa. La vita del rider appare quella di un video-gioco i cui sullo schermo e i microfoni del casco affluiscono di continuo le indicazioni per fare le consegne con tempi, retribuzioni, modalità, rischi (le tutele sono minime quando ci sono), il tutto rigidamente controllato da qualcosa-qualcuno che non è una persona umana, un “superiore”, ma un sistema macchinico governato da un algoritmo, certo a sua volta frutto di un potere umano e occulto.
A un certo punto si racconta la presa di coscienza di una lotta vittoriosa, il formarsi, grazie alla relazionalità tra persone che si sono tolte il casco e si parlano riconoscendosi, di una comunità non “romantica” (o diversamente romantica?). Ma resta un episodio, nel gioco di queste vite che continuano. Una possibilità.
Forse si apre una domanda più radicale: è davvero il lavoro la radice della nostra libertà?

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