Pubblicato sul manifesto il 28 maggio 2024 –
Lo scorso mercoledì 15 maggio ho partecipato all’Auditorium di Roma a un concerto straordinario, unico nel suo tipo, anzi nel suo “terzo tipo”. Con un titolo ambizioso: Almeno noi nell’universo. Viaggio tra musica amore e libertà. La citazione del bel film di Spielberg (1977) sta nel nome del complesso che ha eseguito le musiche: “Orchestra ravvicinata del terzo tipo”. Purtroppo non posso qui riprodurre la grafica con cui il nome è reso: le varie lettere che lo compongono compaiono girate da una parte e dell’altra, dando immediatamente l’idea che un ordine bello e imprevisto possa risultare dalla somma disordinata di cose diverse e antitetiche.
Tutti/e/*, o quasi, ricordiamo quella sequenza musicale di 5 note che nel film diventava lo strumento linguistico per comunicare tra terrestri e alieni. Potrà essere la musica il mezzo con cui conoscersi, capirsi, e perfino amarsi, intanto tra noi che abitiamo questa piccolissima parte dell’universo non rinunciando a guerre devastanti e rischiando di compromettere la stessa sopravvivenza della nostra e di altre specie per il modo dissennato in cui produciamo, consumiamo, viviamo?
Quel mercoledì era un punto di arrivo – e non certo l’ultimo – di un “percorso musicale per adulti con disabilità nato 10 anni fa, nell’ambito dei progetti di partecipazione allargata alle attività musicali della Scuola Popolare di Musica Donna Olimpia e diventato una residenza artistica del Teatro Villa Pamphili”.
Copio da una delle due introduzioni al programma del concerto, firmata da Emanuela De Bellis, dal titolo “Dare valore a ogni singolo suono”. Frase che «esprime il tentativo, che cerchiamo di portare avanti, in maniera sempre più radicale, di ribaltare il concetto di inclusione, che ormai non ci soddisfa e non ci rappresenta più, perché cerchiamo una reciprocità che parla di partecipazione, di diritto alla bellezza». Il che vuol dire: non si tratta di costruire un’orchestra capace di “suonare come gli altri”. Ma di «mischiare le differenze, contaminarci e trasformarci, fino a divenire un unico flusso creativo, cangiante, imprevedibile e meticcio, in cui i confini tra il “noi” e il “loro”, tra staff e orchestrali, tra musicisti e pubblico, si assottigliano fino a perdersi, rendendoci tutti e tutte uno stesso tessuto: in altre parole, una comunità».
Parola rischiosa, comunità, ma se capisco qui ricca dell’ intenzione che di un sistema di relazioni e di azioni condivise esalta il gioco delle differenze e della libertà, non quello delle uniformi e delle identità l’una contro l’altra armate.
Utopie?
Quel che posso dire è che la musica ascoltata era molto nuova e diversa rispetto a tutte quelle che conosco e che era bellissima. Accolta con entusiasmo da un teatro tutto pieno. Ed era un saper tenere insieme dai Beatles a Pierluigi da Palestrina, a Morricone, Leonard Bernstein, Peter Gabriel, solo per citare alcuni degli autori eseguiti e “arrangiati”. Suonare e giocare, ha ricordato Checco Galtieri descrivendo il come e il perché dei brani scelti, si dicono in molte lingue con le stesse parole. E il grande gioco di quella serata ha davvero restituito – almeno ai miei occhi e alle mie orecchie, ma non ero il solo – il valore di ogni singolo suono e di ogni persona che ha contribuito al risultato.
Ho citato solo due nomi, e dovrei farne altre decine. Decisivo il contributo della Cooperativa Agorà, e quello degli studenti dei licei romani Fermi e Kennedy. Giusto ricordare il sostegno di vari sponsor, tra cui Intesa S.Paolo, e il saluto del sindaco Gualtieri. Ma soprattutto il fatto che in apertura il concerto è stato dedicato alla memoria di Giovanna Marini.