Questo articolo è stato pubblicato dall’Unità il 18 giugno 2024, con il titolo “Il Gay Pride è la resistenza al G7 della Meloni” –
Cambiare il corpo è anche un modo di cambiare il corpo sociale. Questo suggeriva il corteo romano del Gay Pride con i carri, la musica, i calzettoni arcobaleno, la sfilata di ragazze sulle motociclette.
Per il manifesto politico “da 30 anni la nostra parata è un atto di resistenza, un rifiuto deciso di arretrare, di lasciare anche solo un centimetro di spazio, di cederlo all’ignoranza e concederlo all’odio….”
Segue un elenco di obiettivi come il matrimonio egualitario, le scelte delle persone trans, binarie e non-binarie, la Gpa, il sex work. Obiettivi che dividono il femminismo mentre la destra li contrasta impugnando come una clava il demone dell’ideologia “gender”. In effetti, il presidente del Lazio ha revocato l’appoggio della Regione (quello del Comune è rimasto) al Gay Pride perché “le rivendicazioni e contenuti politici della manifestazione” non gli andavano a genio.
Nei giorni precedenti la parata, il G7 a guida italiana. Giorgia Meloni è stata al centro della scena illuminata che ha ottenuto l’allargamento della scena a molti leader africani, alla Turchia, Arabia Saudita; la partecipazione del Pontefice con il confronto sull’intelligenza artificiale.
Ma il G7 a guida italiana ha anche mostrato quante cose non vanno a genio alla destra, ammesso che non si sia compreso.
Non gli vanno a genio gli immigrati (da deportare in Albania); le persone non binarie, le più vulnerabili; la decisione della donna di diventare o no madre.
Se la dichiarazione conclusiva del G7 recita: “Riaffermiamo il nostro impegno per raggiungere l’uguaglianza di genere e l’emancipazione delle donne e delle ragazze … Esprimiamo la nostra forte preoccupazione per la riduzione dei diritti delle donne, delle ragazze e delle persone Lgbtq+ in tutto il mondo, in particolare in tempi di crisi, e condanniamo fermamente tutte le violazioni e gli abusi dei loro diritti umani e delle libertà fondamentali” sono saltate, nel riferimento ai diritti LGBTQIA+ “l’identità di genere” e “l’orientamento sessuale” che pure erano nel documento di Hiroshima di un anno fa.
Un tentativo di scoraggiare, frenare e possibilmente mettere da parte il percorso di lotte di questa comunità?
Niente affatto, ha assicurato la premier. “Il governo in questi due anni non ha fatto nessun passo indietro rispetto a quello che è nell’attuale normativa in tema di aborto, di diritti Lgbt, e compagnia cantando”.
Ora, a voi sembra sinonimo di finezza linguistica e non, invece, di sguaiataggine istituzionale venirsene fuori con questa “compagnia cantando”?
Ammettiamo che non ci sia cattiva disposizione d’animo e che nei discorsi di esponenti del governo non si incontrino tracce di misoginia, omofobia, razzismo. Eppure, in alcuni momenti assistiamo allo spettacolo confuso di una reazione incontrollata, alla quale seguono rabberciature, aggiustamenti retorici del tipo: lanciare il sasso e ritirare la mano.
In quei momenti, le due facce da dottor Jekyll e mister Hyde che i commentatori attribuiscono a Giorgia Meloni, non trovano una saldatura.
D’altronde, sono parecchi gli esempi che spuntano da una concezione degli individui più vulnerabili, delle relazioni tra i sessi e della sessualità che, se non fa indignare, mette comunque a disagio.
Di recente, l’Italia assieme a nove Paesi tra i quali Romania, Ungheria, Bulgaria, non ha firmato la “Dichiarazione sul continuo avanzamento dei diritti umani delle persone Lgbtqia+ in Europa” proposta dalla presidenza belga al Consiglio dell’Unione. Magari per il nostro Paese non era importante una dichiarazione che lascia il tempo che trova ma i compagni di merenda dell’Italia non sono granché rassicuranti.
Nel marzo 2023 una circolare dal ministero dell’Interno ha invitato i comuni a interrompere il riconoscimento dei figli delle coppie omogenitoriali. Secondo il ministro Piantedosi almeno una mamma andava cancellata dal certificato di nascita delle 33 famiglie arcobaleno di Padova. Veniva chiesto di eliminare il riferimento alla madre non biologica e di cancellare il doppio cognome all’anagrafe.
Tuttavia, un anno dopo, il tribunale di Padova ha detto che “gli atti di nascita non si possono cancellare”.
Vero è che le famiglie arcobaleno vivono con una minaccia sulla testa e la registrazione di entrambi i genitori dello stesso sesso sul certificato di nascita dei bambini dipende dalla buona volontà dei sindaci a loro rischio e pericolo.
Ha ragione Mariangela Marseglia, ceo di Amazon Italia e Spagna (intervistata da Monica D’Ascenzo sul Sole 24 Ore del 16 giugno) quando cita “l’ambiguità dal punto di vista normativo della situazione che va sanata. Perché io che sono una cittadina come gli altri e ho gli stessi doveri degli altri, devo avere nello stesso tempo anche gli stessi diritti indipendentemente dalle mie scelte affettive. La società è favorevole. Il fatto che non si prendano posizioni nette è solo frutto di ideologia, non ha basi giuridiche”.
Tornando alla dichiarazione finale (135.000 parole) del G7, anche la parola “aborto” è stata lasciata da parte.
Per “controllare il corpo delle donne” secondo Dacia Maraini (su La Stampa del 14 giugno)?
Per rispettare la presenza del Pontefice?
La premier ha smentito che ci fosse dietro – diciamo così – un disegno diabolico. “Credo sinceramente che la polemica sia stata costruita in maniera totalmente artefatta”.
State sereni! Non c’è nessun bisogno di parlare dell’interruzione di gravidanza dal momento che vengono riconfermati gli impegni espressi nel comunicato finale del G7 di Hiroshima per un accesso universale, adeguato e sostenibile ai servizi sanitari per le donne, compresi i diritti alla salute sessuale e riproduttiva per tutti.
E però, la volontà di indebolire la libertà femminile a decidere di sé resta un punto, pur smentito, di questo governo. Lo dimostra la presenza delle associazioni pro-vita nei consultori (peraltro nel numero ridotto di 1800 quando la legge ne prevedeva 3000, uno ogni ventimila abitanti), comparsa inopinatamente come emendamento al decreto Pnnr.
La ministra della Famiglia ha spiegato che in questo modo “si attua finalmente la lettera della 194/1978”. Silenzio sul numero altissimo di medici obiettori di coscienza che sono parte attiva nella non attuazione della 194.
La cantante Linda Feki sul Corriere della Sera (del 17 giugno) ha raccontato la fatica di abortire tra inghippi medici e burocratici di due ospedali napoletani: uno scoraggiamento che fa cadere le braccia.
E fa cadere le braccia il silenzio della ministra che sostiene le associazioni pro-vita nei consultori. Nonostante il ruolo negativo che possono avere in un momento tanto delicato come la scelta se diventare o no madri.
Insomma, Giorgia Meloni racconta la società e quanti/quante la abitano con una sorta di elusività che poggia su parametri culturali sfuggenti, vischiosi. Forse scommette sull’apatia pubblica e sull’interesse di tanti rivolto esclusivamente al privato; certo, guarda all’indietro, alle rappresentazioni mentali che circolavano prima del crollo del Muro nell’Ottantanove. E anche molto più a ritroso, con quel suo attaccamento simbolico alla “fiamma” e l’incapacità strutturale di pronunciare la parola “antifascismo”. D’altronde, non è l’unica in questa Europa dei sovranismi.