Vedendo “Ripley” di Steven Zaillian (su Netflix) scopri una serie che si propone attraverso otto lentissime puntate. In opposizione ai canoni della serialità alla quale sei abituata, il regista dilata il romanzo di Patricia Highsmith “Il talento di Mr. Ripley” fino allo sfinimento.
Ma la noia può essere una virtù. Curata ossessivamente nei particolari – sfilano angeli e teste e piedi e mani scolpite – immersa in un b/n espressionista (con la fotografia incredibile di Robert Elswit), sostenuta dallo sguardo indecifrabile di Andrew Scott, con una Atrani che si raggiunge in corriera (ancora oggi) lungo la strada della Costiera tutta curve a strapiombo sui Galli (e Napoli e Roma e Venezia e Palermo collocate nel 1961, miracolosamente vuote perché riprese durante la pandemia), la serie non rinuncia al discorso sull’arte attraverso le ombre radenti e i chiaroscuri dei quadri di Caravaggio.
Troppa raffinatezza estetizzante?
Non mi pare perché c’è un gioco di luci e ombre capace di sottolineare l’ansia che impregna la serie; il continuo, faticoso inerpicarsi dei protagonisti di “Ripley” sui gradini delle chiese, sulle scale degli alberghi, dentro i vicoli umidi è forse la metafora della fatica richiesta a chi decide di procurare il male dell’altro.
C’è in “Ripley” la menzogna indispensabile alla scalata sociale, la rapina dell’identità, l’omosessualità mai dichiarata, i colpi di scena o di fortuna del giocatore di poker capace di menare per il naso la polizia, le soluzioni rischiose scelte dal falsario pasticcione che se la cava sempre per il rotto della cuffia.
Andrew Scott alias Tom Ripley è un assassino respingente, rabbioso, un narciso perseguitato dall’invidia. E l’invidia può, da passione triste trasformarsi nell’aspirazione sicuramente deformata per raggiungere l’eguaglianza. Un modo terribile per ristabilire l’equilibrio in una società ingiusta.